Tutta Parma
L'imperativo del terzo millennio è seguire la moda in tutte le sue espressioni. Ovviamente, anche l’arredamento della casa risente di questa tendenza. E, se un tempo le seggiole della cucina erano fatte in una certa maniera che poi vedremo, ora devono avere un design del tutto particolare, devono inserirsi bene nell’ambiente della casa ed anche se non sono comodissime ed agevoli non fa niente.
E’ sufficiente che siano di moda, moderne ma, soprattutto, firmate. Cosa ben diversa, invece, le autarchiche seggiole da cucina dei nostri vecchi: le famose «scrani äd pavéra» (seggiole di paglia). Ma chi erano e da dove venivano gli artigiani che le impagliavano? Arrivavano solitamente nelle corti agresti a fine estate provenienti dalla bassa padana o dai paesi del delta del Po con il loro carrettino ricolmo di erba essiccata e qualche attrezzo del mestiere. Erano i cosiddetti «scranär» e cioè coloro che impagliavano le sedie con la «pavera». La «pavera», appellativo dialettale della «caresina» (un’erba palustre), era particolarmente adatta per impagliare le seggiole, le care vecchie «scrani» che attorniavano il tavolone della cucina, alloggiavano nelle osterie, oppure erano allineate come soldati nelle chiese. Comunque, delle «scrani äd cuzén’na», ovviamente in «pavera», la più comoda, era riservata alla «vécia», una sorta di «trono domestico» dove la veneranda si sedeva quando doveva distribuire, con il manico di un cucchiaino da caffè, il ripieno sulla sfoglia, tirata come un drappo di seta, per fare gli anolini. Lo «scranär» giungeva nell’aia quando erano ormai terminati i lavori dei campi e nelle corti cominciava a regnare la calma anche se era tempo di «scartociäda» (spannocchiatura del granturco) e di vendemmia. In tutti i modi il grosso del lavoro era passato, quindi si poteva concedere un po’ più di tempo alla casa e ai suoi arredi. Il seggiolaio ambulante, oltre rifare le sedie sfondate, non mancava di riparare anche quelle «zoppe», oppure un po’ traballanti dando prova di grande perizia anche come falegname. D’altra parte nel suo carrettino non mancavano mai, oltre che la «pavera», forbici, coltelli, martello, chiodi, pinze, colla, spago, cera e pialla. Appena giunto nella corte, lo «scranär», veniva circondato da un nugolo di donne ognuna della quali aveva, come minimo, un paio di sedie da riparare. Una volta accumulato il lavoro, l’ambulante, montava il suo laboratorio sotto il portico, stendeva un telo di iuta, si sedeva per terra ed incominciava ad intrecciare la «pavera».
Una volta smontata la vecchia impagliatura, l’uomo montava la nuova con sveltezza e abilità attorcigliando la «pavera» in modo tale da creare un morbido cuscino vegetale che profumava delle erbe selvatiche del Po. Le seggiole, nell’arredamento della casa contadina d’un tempo, erano accessori indispensabili in quanto poltrone e divani erano rarissimi e, quindi, la gente per pranzare, cenare, riposarsi doveva necessariamente sedersi su una sedia. Le stesse sedie della cucina, in estate, dopo cena, venivano portate sotto il portico per consentire alla gente di stare in veglia e cioè, alle donne, di scambiare le rituali chiacchiere, mondare le verdure e riparare le biancheria e, agli uomini, di utilizzarle, magari seduti a cavalcioni, per giocare a briscola o a «gilet» avendo per tavolino un paio di casse da pomodori. In inverno la stessa storia: le seggiole dalla cucinona, sempre dopo cena, venivano portate nelle stalle dove la famiglia si radunava per assaporare, al caldo, alcuni momenti di allegria prima di andare a letto. E, proprio durante le fredde veglie invernali spettava al «nonón» (il più anziano della famiglia), fare le scope di saggina o di « pavera», impagliare le damigiane rotte e qualche seggiola imitando in qualche modo l’arte dello «scranär».
Ma ritorniamo al nostro «seggiolaio» il quale, una volta terminato il lavoro nella corte e dopo avere soggiornato alcuni giorni pernottando nel fienile, veniva richiesto dall’oste e dal prete ai quali le seggiole erano indispensabili: il primo, per far accomodare la gente attorno ad un tavolino con dinanzi una bottiglia di vino e un piatto di salame o di «buzéca» (trippa), il secondo, per ospitare nella Casa del Signore quelle povere vecchiette che, almeno per il rosario e la messa, potevano sedersi comodamente su seggiole non sfondate ma, soprattutto, sicure. Ed allora il seggiolaio, dopo avere riparato le seggiole «laiche, la cui «pavera» si sarebbe col tempo impregnata degli odori del vino e del fumo dei sigari, si recava in canonica dove la perpetua o il sagrestano gli sottoponevano quelle seggiole rotte che, una volta riparate, avrebbero avuto una copertura di «pavera» nuova fiammante che, al contrario dell’ osteria, si sarebbe imbibita dei fumi dell’incenso.
Impagliare, comunque, era un’arte che gli «scranär» (quasi tutti contadini) avevano imparato dai loro vecchi. Erano uomini del Po, in quanto la «pavera» è un’erba palustre, conoscevano i piccoli grandi segreti del loro mestiere, come pure erano maestri nell’individuare l’erba giusta nella stagione adatta. Era gente forte, gagliarda, dalle maniere brusche, ma dal cuore tenero e, se qualche vecchio non possedeva tutti i soldi per riparare, magari l’unica seggiola che aveva in casa, il «seggiolaio del Po» riparava gratuitamente quella seggiola che, per qualcuno, voleva dire tutto : riposo e compagnia d’inverno davanti al camino e, d’ estate, sotto il portico. Comunque, prima che lo «scranär» smontasse il suo laboratorio ambulante, il «rezdór», non mancava mai di stappare una bottiglia e di fare un brindisi con colui che gli aveva sistemato le seggiole di casa e che, in segno di simpatia e riconoscenza per la paga e l’ospitalità ricevute, lasciava al padrone di casa un fascetto di «pavera» che sarebbe servito per riparare quelle seggiole che, nel frattempo, si fossero lasciate andare.
Con la «pavera», oltre impagliare le seggiole, si facevano anche le borse meglio «il sporti», quelle, tanto per intenderci, con i manici, che utilizzavano le «rezdore» per andare a fare la spesa. Le «sporte» non erano come i moderni sacchetti di plastica ecologica o meno che è molto facile si rompano quando si trasportano bottiglie o altri oggetti pesanti.
Erano robustissime e capienti. Le utilizzavano anche i «masén» e i «castradór», per trasportare i loro attrezzi del mestiere («coradór», coltelli vari, aghi e filo quando dovevano recarsi nelle cascine a compiere il rito della maialatura e della castrazione dei galli per ottenere i capponi). E, siccome in campagna, una volta, non si buttava mai via nulla, quando la «sporta äd pavéra dventäva frùssta» ( logora), donne e bambini la utilizzavano, con i manici rifatti con la corda, per trasportare la «mrénda» (merenda ) agli uomini che erano nei campi.
Lorenzo Sartorio
© Riproduzione riservata
Gazzetta di Parma Srl - P.I. 02361510346 - Codice SDI: M5UXCR1
© Gazzetta di Parma - Riproduzione riservata