Arte-Cultura
Bonaviri e la Sicilia, un mondo arcano tra ricordi e magie
24 Marzo 2009 - 17:24
Davide Barilli
«... il mio paese, in provincia di Catania, ha sempre favorito la nascita di poeti e pensatori tra contadini e artigiani: per tradizione, per clima, aure, venti, fasce elettromagnetiche terrestri, lunari, solari, metabolizzati per fantasiose spirali di acidi desossiribonucleici...». Così, parlando di Mineo, scriveva - ai confini tra scienza e fantasia, pensiero e immaginazione - Giuseppe Bonaviri. Ed è indubbio che per lo scrittore siciliano, scomparso sabato a 84 anni, la cosmica moltiplicazione del mito e dell'esperienza di quella terra (che diede i natali a molti personaggi di inquieto talento, in primis Luigi Capuana) siano sempre stati il nodo di un legame con le proprie radici fattosi poetica dell'esistente. «La mia formazione infantile - aveva raccontato - resta pre libresca. Poeti contadini e vento di Mineo, fiabe raccontatemi da mia madre…». Ancora troppo poco conosciuto dal grande pubblico, Bonaviri è stato uno dei più autentici scrittori del dopoguerra: ha pubblicato oltre trentacinque opere, di prosa e di poesia, è stato più volte candidato al Nobel, tradotto in molte lingue, perfino in cinese e arabo; di lui hanno scritto Vittorini, Calvino, Sciascia, Manganelli, Gramigna, Manacorda, Pampaloni (solo per citarne alcuni, ma l’elenco è lunghissimo), eppure il suo nome dice poco a chi non si occupa, per passione o professione, di letteratura.
Il suo primo romanzo, «Il sarto della stradalunga», scritto durante il servizio di leva a Casale Monferrato, venne pubblicato nel 1954 da Einaudi nella leggendaria collana «I gettoni». Trasferitosi a Frosinone, dove ha sempre vissuto e lavorato come cardiologo, ha saputo conciliare la sua attività professionale con la scrittura. Nei suoi numerosi romanzi, Bonaviri - inventando una sorta di Macondo della memoria - ha rappresentato l'«universale» attraverso i personaggi del piccolo mondo di Mineo, sempre attento a cogliere la dimensione magica e arcaica della natura: «Il fiume di pietra» ('64), «Notti sull'altura» nel ('71), «L’enorme tempo» ('76), «Novelle saracene» ('80), «L'incominciamento» ('83), «Il vicolo blu» nel 2003, sono alcune delle tappe di questo percorso. Fortemente legato alla sua terra, dopo il romanzo d'esordio, Bonaviri abbandonò l'approccio neorealistico per approdare ad una scrittura fantastica e onirica. Ed è proprio la dimensione magica e arcaica della natura, la cifra dominante di questo autore appartato e schivo. Ma quella di Bonaviri è una Sicilia mitica e magica, senza mai cadute nel bozzetto o nel colorismo fine a se stesso. I suoi romanzi e racconti, da leggersi come un libro unico, sono uno spaccato di un mondo fatto di paesaggi e presenza oniriche. Con «Dolcissimo» (nel '78) Bonaviri compie poi una surreale discesa agli inferi della città di Zebulonia-Mineo. Quasi tutte le scene dei romanzi e delle poesie ripercorrono le età magiche dell'infanzia e della giovinezza a Camuti, dove sorgeva la casa paterna. Siciliano fino al midollo, per il gusto di una lingua scavata dal di dentro, per cultura e gusto, ha incarnato l'illusione laica di eternità dell'uomo identificabile in più di uno scrittore siciliano. Si può davvero dire che ansia di assoluto e regola della verità si siano influenzate a vicenda e che Bonaviri abbia realizzato l'unificazione delle cosiddette due culture: scientificità e umanesimo, entrambi indispensabili per la sua compiutezza letteraria. Tra gli abissi di un nulla osservato «negli arsi terreni, senza grano nè fave», dove solo il potere salvifico della parola si rifrange tra le onde del sogno.
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