Stefania Provinciali
La galleria Ponte Rosso di Via Brera propone a Milano fino al 7 aprile venticinque dipinti e una selezione di disegni di Renato Vernizzi, il pittore parmigiano, scomparso nel '72, che nel suo solitario percorso ha composto un affresco di luoghi e d’affetti di grande intensità. La mostra, «Vernizzi e gli amici di Bagutta», è stata anche occasione per riportare l’attenzione sul catalogo generale di Vernizzi, curato dal figlio Luca e da Elena Pontiggia ed edito da Mup, realizzato in vista del futuro museo che la Fondazione Monte Parma ha previsto per l’opera dell’artista e rappresenta un importante documento dal punto di vista della storia dell’arte. Esposte opere realizzate a partire dagli anni '40, affiancate dai dipinti di altri diciotto nomi da Barbieri, a Bucci, a Carpi, a Dalla Zorza, a Novello, solo per citarne alcuni, accomunati dall’appartenenza allo storico cenacolo di artisti e letterati che aveva il suo luogo di ritrovo all’osteria "Bagutta", sede dell’omonimo premio letterario. «Una vita dedicata, tutta, alla pittura, con un posto di nicchia per il disegno»: titola così un intervento di Gianni Cavazzini sul catalogo generale, riassumendo in poche, incisive parole quella esigenza che Renato Vernizzi ha espresso in tutto il suo percorso: una pittura tesa a raccontare le impressioni del sentimento, rivolta ai luoghi ed agli affetti famigliari colti con lucida intenzione. C'è infatti in Vernizzi un passaggio fondamentale che rende a questo suo dipingere la profondità del pensiero, un’attenzione psicologica che affonda le radici nella mente dell’artista, intento a mettere tutto se stesso nella rappresentazione, non un approccio sentimentale ma profondamente umano dove la mente ed il cuore, le ragioni di una pittura che supera ben presto gli esiti novecentisti delle origini e che si consolida senza ripensamenti in tempi di mutamenti radicali nel mondo dell’arte, hanno una ragione profonda.Ecco, allora, scorrere davanti agli occhi, negli spazi della galleria milanese «Giocattoli» tela del '44-'45, con cui inizia il percorso, «dove vi sono giochi senza giocatori, su uno sfondo nebbioso senza un bimbo che se ne curi perchè siamo in tempo di guerra e non c'è tempo per pensare al divertimento» ricorda Elena Pontiggia. Si snoda la vicenda affettiva con «Luca e il cesto d’uva» del '45 od i successivi «Autoritratto allo specchio e Isabella» del '54 dove l’importanza del colore ed i contrasti di luce ed ombra vanno acquistando rilevanza nella stesura dell’impianto narrativo e formale. La pittura è attenta, si configura come ideale lettura del mondo interiore, si infila nelle pieghe del quotidiano.
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