L’idea che va per la maggiore è che una cucina nazionale italiana non esista, ma che essa sia un insieme molto ricco e variegato di cucine regionali, quando non provinciali, strettamente legate al territorio, ai suoi prodotti spesso eccellenti e sempre di personalità spiccata e con caratteristiche peculiari.
Su quest’orizzonte s’innesta il fascino del ricordo, le lusinghe della memoria: è l’imbattibile cucina della mamma, della nonna, della zia, sono le interminabili discussioni sulla vera ricetta, sul come dev’essere fatta una minestra o una pietanza. La tradizione non si tocca o, al massimo, solo per quel poco che il tempo rende obbligatorio. Per molti il futuro passa da questa strada. Non per Allan Bay e Paola Salvatori che nel loro libro, «La cucina nazionale italiana» (Ponte alle Grazie, pag 759, 39 euro) sostengono che finalmente oggi esiste un «nucleo della cucina italiana» rappresentato dalle 1135 ricette raccolte nel volume. Il percorso comincia in parallelo a quello dell’Unità d’Italia (1861) e alla successiva necessità di «fare gli Italiani» e, più modestamente, la cucina italiana. Non la fece però il «sommo» Artusi, perché la sua Scienza in cucina e l’arte di mangiar bene fu piuttosto una fotografia, la registrazione di realtà regionali in prospettiva tosco-emiliana che, secondo Bay-Salvatori, «fossilizzò la cucina italiana…incapace di una sintesi nazionale più alta».
Per circa un secolo, fino al 1960, la situazione rimase sostanzialmente la stessa, col dominio assoluto delle cucine regionali. Il cambiamento arriva con la modernizzazione dei trasporti e la riduzione dei costi che resero possibile acquistare prodotti una volta lontani. Poi i primi supermercati, gli immigrati «con al seguito i loro prodotti e loro tradizioni», il turismo nazionale, internazionale e i relativi scambi, i libri, le riviste, il boom economico che sconfigge la fame e consente di vedere la cucina in prospettiva d’esplorazione e di ricerca. Quando in Francia, nel 1973, Gault e Millau codificano la Nouvelle cuisine e grandi cuochi (Paul Bocuse su tutti) la realizzano, si vede che molti di quei princìpi (usare prodotti freschi e di stagione, cotture ridotte, poche salse, semplicità di base) erano propri della cucina italiana. I nostri migliori cuochi, a partire da quella base, si confrontarono con la nuova cucina francese, fecero «evolvere la loro cucina in mille rivoli, qualcuno fruttifero, molti sterili, ma intanto ci si muoveva». La cucina italiana si metteva in gioco e oggi «i nostri piatti, interagendo, si sono modificati sempre di più per adattarsi ai nuovi stili di vita». E’ così, secondo Bay-Salvatori, che hanno perso «l’originale connotazione regionale, diventando piatti di tutti, quindi nazionali».Chichibìo
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