di Chichibìo
Sembrerebbe una trivialità e, in effetti, in qualche caso è così. Ma attorno al Po, «maialata» è l’occasione che, scacciata per sempre l’atavica fame contadina, sigilla in festa e in eccesso alimentare il rito dell’uccisione del maiale grazie a una delle più antiche e attese liturgie che unisce e chiama a banchetto gli uomini delle campagne. Solo coloro, però, che si riconoscono nell’immaginario di quelle civiltà che Marvin Harris definisce «porcofile» in contrapposizione a quelle, «porcofobe», che vedono nel maiale una forma del male ed erigono nei suoi confronti divieti e tabù.
DA TABU' RELIGIOSO A SIMBOLO RIVOLUZIONARIO - Sacro a Maja (per i Romani, «Bona dea» o «Fauna», colei che «accresce i prodotti della terra e la ricchezza degli uomini»), il maiale (majalis), nelle regioni dove sono state trovate le sue tracce più antiche (Iraq e Siria), è visto per l’insaziabile ingordigia, l’intensa carnalità, la naturale foia come animale imbarazzante verso il quale Babilonesi, Egizi, Fenici fecero scattare forme severe d’ostracismo. Quando poi, attorno al 5° millennio, è addomesticato e nelle regioni del Medio Oriente e dell’Africa mediterranea avanza la desertificazione, quell’animale che mangia grani e radici, non dà latte e si sposta a fatica, diventa nemico di quei popoli. E’ allora che scatta il definitivo tabù religioso ed è illuminante ricordare ciò che sull’argomento dicono Freud e Levi-Strauss. Per il primo, il clan s’identifica con un animale considerato progenitore (totem) sacro e proibito - e niente è più intoccabile per ebrei e musulmani; per il secondo, gli Esseri caricati di significati dal pensiero primitivo sono percepiti come portatori di parentela con l’uomo: le proibizioni, dunque, nascondono inquietanti vicinanze, metaforiche discendenze. Le civiltà «porcofile», invece, lo allevano, lo curano, imparano a conservarne la carne: è grazie a Sumeri e Greci, Etruschi e Romani che noi oggi mangiamo salami e prosciutti. L’arte Romanica lo ha nobilitato, da Notre Dame di Chartes al Duomo di Fidenza; Durer e Andy Warhol l’hanno dipinto; George Orwell traccia in lui la parabola del rivoluzionario che diventa tiranno; Carlo Emilio Gadda indica come esempio ai critici letterari il «porcello che al boleto ritto e scarlatto preferisce i tartufi».
IL LEGAME UOMO-MAIALE - Poco importa allora se le parole della famiglia suina (porco, maiale, scrofa, troia...) incorrono ancora in quella che i linguisti chiamano «interdizione di decenza», perché è nella lingua comune, nel gran numero di voci dialettali, con diminutivi e vezzeggiativi, che si coglie la simpatia e l’umana affinità col maiale. Infine che dire, nei giorni in cui gli scienziati creano, impiantandovi geni umani, maiali i cui organi (cuore, reni, fegato) potranno essere compatibili con l’uomo? Basterà affidarsi alla profonda verità del nostro dialetto che, chiamando il maiale morto «nimèl» (l’animale), gli rende, grato, tutta la sua nobiltà e recupera la consapevolezza di un legame originario solo in parte spezzato dal tabù.
Inviaci il tuo commento
Condividi le tue opinioni su Gazzetta di Parma