Parma
La lezione del "prof" Gianni Mura: "Io, giornalista con la gastrite"

02 Dicembre 2011 - 17:08
Andrea Del Bue
«In trasferta, uso ancora una Lettera 32 e detto l’articolo agli stenografi». E’ Gianni Mura che parla, alla facoltà di Lettere, davanti agli studenti del corso di Giornalismo digitale, tenuto da Maurizio Chierici, il collega che ieri l’ha invitato dietro la cattedra. Mura si conferma cronista di una razza in via d’estinzione: «Su settecento giornalisti che sono al Tour de France (che Mura segue da inviato di «Repubblica», ndr), sono l’unico a scrivere ancora a macchina. Ogni anno, c’è la solita troupe giapponese che mi fa la solita domanda: «Non pensa di dar fastidio con quel rumore?». Io rispondo sempre: «No, è il loro silenzio che mi infastidisce». Fanno l’inchino e se ne vanno; torneranno l’anno prossimo». La pasta è la stessa di Gianni Brera, l’uomo che ha rivoluzionato il giornalismo sportivo. E’ stato suo maestro; nel dicembre 1992 all’allievo tocca il «coccodrillo»: una delle pennellate d’inchiostro più belle degli ultimi decenni. «Dicono che gli assomigli molto fisicamente - scherza Mura - e per certe inclinazioni alcoliche». A seguito del Tour si salta il pranzo, ma a cena si sta a tavola per ore: «E’ tirando tardi la sera che ci si fa una cultura sul vino». Tanto che Mura, sul Venerdì di Repubblica, cura una rubrica enograstronomica, «Mangia e Bevi», con la moglie Paola. Con una certa competenza, derivante dalle lunghe trasferte di lavoro: «I giornalisti non si distinguono in buoni o cattivi, ma in giornalisti con o senza gastrite. I primi mangiamo riso in bianco a Enna come a Sondrio; gli altri, di cui faccio parte, cercano i piatti tipici del posto». Il paragone con Brera lo inorgoglisce, si vede, ma urge precisare che «la differenza non è tra Brera e Mura, ma tra le 72 righe che io ho avuto per la finale dei Mondiali di calcio nel 2006 e le 180 che avrebbe avuto lui, ai suoi tempi; oggi la carta stampata non si fida più della parola scritta: hai meno spazio per volare». Per questo, la nuova sfida, col mensile di Emergency «E», che dirige: «Parliamo di guerra, diritti, solidarietà, problemi sociali, senza rifuggere però dalla cronaca. E non abbiamo paura dei testi lunghi». E’ però lo sport il pane quotidiano di Mura; il calcio, soprattutto. Come sottolinea Chierici, «i giornalisti sportivi sono i più grandi inventori di racconti: affossano e creano miti». Non più, forse: «E’ il tempo verbale che è sbagliato: lo eravamo - si fa serio Mura -. Era più facile raccontare quando nessuno poteva controllare: oggi c’è la tv, sempre più invasiva, e lo sport è diventato chi ride di più. E pensare che anche i grandi quotidiani sportivi, un tempo, avevano la terza pagina. Ora, invece, il giornalista è una via di mezzo tra un cercopiteco e un piazzista di pentole».
Come Brera, anche Mura ha il vezzo del neologismo; inimitabili quelli del suo maestro: «Su tutti, secondo me, quello per Mariolino Corso: «participio passato del verbo correre», per la sua lentezza sul campo. Anche io ne inventai uno, ma a causa di un refuso non divenne mai tale. Coniai «Spettattori», per l’esagerato protagonismo del tifo, ma uscì «Spettatori», con una «t» sola». Tifo e simpatie, quando si scrive di sport, è meglio accantonarle: «Sono stato interista, ma cedettero Angelillo, il mio idolo; quindi decisi di essere milanista - ammette -. Nel ’64, però, entrato in “Gazzetta dello Sport”, i colleghi più anziani mi consigliarono di non tifare per nessuno. Nel ciclismo è più difficile: ai tempi di Pantani, per esempio, sono stato molto coinvolto. Molti lettori, un giorno, mi scrissero: “Come la mettiamo adesso che ci hai fatto amare Pantani e dicono che è drogato?”. Avevano ragione: da allora, anche se non mi piace, ho il freno a mano tirato».
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