di Lara Ampollini
Fosse così facile farne un uomo, ad ogni bamboccione d’Italia bisognerebbe affibbiare un bambino abbandonato.
Ma si sa che ogni Natale ha bisogno delle sue favole di redenzione. Qui la vacuità dei figli del benessere prende il posto della tirchieria del vecchio Scrooge. Ma da Dickens a oggi vogliamo credere che essere più buoni si può. E, ad esempio, esorcizzare il disagio per un tenore di vita insostenibile in tre quarti del mondo, nei giorni di apoteosi di un consumismo che la crisi ha solo reso più desiderabile. Il film del giovane Muccino finisce per servire bene allo scopo. Pur essendo benintenzionato e motivato da pulsioni sincere. Un ragazzo di 28 anni, mantenuto nel lusso dalla madre miliardaria, con ragazza bulimica, un giorno scopre che il padre scomparso da anni sta morendo in un ospedale di Nairobi e lo invoca al suo capezzale. Al suo arrivo in Kenya Andrea scopre che il padre gli ha lasciato un fratellino, avuto da una donna locale. Il resto è come ci si immagina, il rifiuto della responsabilità, un bambino irresistibile, il ritorno insieme in «un altro mondo», una famiglia. Silvio Muccino, come il fratello Gabriele con cui non si parla, al suo secondo film scopre il focolare domestico contro il disorientamento odierno. Siamo dalle parti di un «About a boy» dei poveri. A tratti si soffre, qualche momento trova la giusta leggerezza. Per il buon intento benefico per l’associazione World friends, una mezza stella in più (e poi, sempre meglio di un cinepanettone).
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