
Nel paese di V. destò curiosità l’arrivo, una mattina di febbraio del 1970 del secolo scorso, di un signore sopra un calesse, trainato da un cavalluccio da trotto grigio.
Il signore prese alloggio in un alberghetto attiguo alla caserma dei carabinieri; l'equino fu invece sistemato in una stalla poco lontana, e il carretto, un fattorino di legno lucido, trovò collocazione sotto una tettoia laterale alla medesima. L’uomo, anziano, e di bassa statura, indossava un cappotto scuro, il cappello e una vistosa cravatta rossa spillata da un fermaglio d’oro a forma di compasso. Un po’ claudicante, per via di una scarpa ortopedica, cominciò a frequentare un bar al di là di un torrente, dove, ogni giorno, si davano convegno alcuni confinati di mafia, individui all’apparenza cordiali quanto silenziosi, ma di cui si mormorava che avessero fatto parte di gruppi di fuoco, autori di stragi. L’uomo, disse l’albergatore, era un sensale di mucche da macello. La mattina si alzava presto, fatto attaccare il cavallo da un garzone della locanda, s’allontanava nella campagna.
Rientrava all’ora di pranzo, che consumava nella trattoria vicina al bar; dopo, sedutosi ad un tavolo di quest’ultimo, leggeva il giornale. Non beveva mai caffè, ma solo limonate o the. L’espressione del suo volto, dalle mascelle quadrate e il naso importante, era pensierosa; talvolta, accendeva un sigaro. Ma anziché assaporarlo ci soffiava dentro, sollevando un gran fumo. Al dito mignolo della mano sinistra aveva un vistoso anello d’oro, pure quello contrassegnato da un compasso.
Non parlava quasi mai; si limitava a rispondere con sorrisi e rapidi sguardi. In compenso sembrava osservasse quanto avveniva nel bar.
I clienti lo guardavano sospettosi, in particolare i tre confinati di mafia ai quali, un pomeriggio, disse a voce alta che per legge quelli come loro non potevano soggiornare, in più di uno, nello stesso paese.
Uno di essi gli rispose in dialetto, e l’uomo sogghignò. Poi accese un sigaro. All’indomani, s’era da poco seduto al bar, allorché andò da lui una pattuglia di carabinieri, ma non quelli del paese.
Il maresciallo gli chiese di mostrargli i documenti.
Lui, gentile, tanto fece. Poi, esibitogli un foglio, il maresciallo e i due subalterni gli perquisirono la sua stanza d’albergo. Cosa che destò clamore ma che parve aver divertito l’uomo il quale, nel frattempo, s’era saputo che si chiamasse Demetrio Calindi, nativo di Canicattì. Dopo la perquisizione, un’Alfa Romeo coupé 1750 grigia, prese a transitare nei dintorni con a bordo due individui.
Un giorno di pioggia e di nebbia, coi camini delle abitazioni che fumavano, Demetrio, alzatosi dal tavolo, bevuto un the, estratto di tasca un lungo revolver, rapido, lo puntò contro i tre confinati e fece fuoco. Svelto, senza zoppicare, s’ avviò verso la strada. Veloce, gli si accostò l’Alfa Romeo, sulla quale salì. Nessun giornale dette notizia dell’evento. Un camion militare, giorni dopo, venne a prelevare cavallo e calesse.
Ma nessuno parve accorgersene. Nemmeno l’albergatore.
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