Muti: «Guai a chi tocca Verdi. Potrei uccidere»

VITTORIO TESTA

«Andammo in carrozza al Petruzzelli di Bari, io avevo tre anni, stavo in braccio al cocchiere e mi dissero che ascoltai l’Aida senza piangere e dar fastidio». Fu lì, in quella sera del 1944, che l’infante Riccardo Muti, escluso dal padre medico un deficit uditivo, avvinto da tre ore di canti e musica, clamori della Marcia trionfale compresi, contrasse un’acuta, inguaribile e benedetta forma cronica di “verdismo”? Evidentemente stava scritto lassù, “vuolsi così colà dove si puote”, che Riccardo Muti sarebbe diventato, erede di Arturo Toscanini, l’occhiuto difensore del grande bussetano. Verdi come mito, come padre artistico e morale, come esempio di orgogliosa italianità, celebrato ogni giorno con una dedizione totale dal maestro napoletano-molfettese.

Vienna, 1996, festeggia i mille anni dell’Austria e affida la bacchetta a Muti, amatissimo dai Wiener Philarmoniker, per le celebrazioni. Si comincia con l’Ave verum mozartiano nella cappella della Hofburg. La sera prima il maestro incontra il cronista e subito si parla, vedi un po’, del Convitato delle Roncole. «Quanto deve aver sperato e sofferto l’italianissimo Verdi negli anni del Risorgimento, delle guerre d’indipendenza, dei patrioti uccisi dai soldati di Cecco Beppe» sussurra Muti incupito che annuncia: «Se mi dà la sua parola di non scriverlo, domani mattina non dirigerò l’inno nazionale austriaco per rispetto dei nostri connazionali che hanno dato la vita per l’indipendenza. Ma non voglio che si sappia, verrebbe visto come un mio gesto a scopo di pubblicità personale».

E la mattina dopo davanti al presidente austriaco il maestro annuncia all’orchestra: «Scusate, io dirigo soltanto l’inno italiano. Fate da soli, poi mi rivedete per l’Ave verum di Mozart». L’indomani i giornali viennesi riferiscono. Muti ha un’aria sorniona, parla con il sottovoce dei Carbonari: «Chissà che Francesco Giuseppe non si sia rivoltato nella tomba vedendo sul podio viennese un italiano figlio di quegli eroici compatrioti. E invece sono sicuro che Verdi stia annuendo soddisfatto».

Sempre a Vienna, giugno 1996, Musikverein. Muti annuncia i bis: «E ora, di Giuseppe Verdi…». Ma subito scoppia l’applauso della sala colma di duemila entusiasti spettatori. Muti si interrompe, sorride rivolto al pubblico e poi: «Sì, di Giuseppe Verdi…». Nuovo applauso e una raffica di “bravo” e “bravo maestro”, il quale con l’aria gioiosa di chi è balzato al settimo cielo annuisce, alza la mano, ottiene silenzio, e scandisce: «Di Verdi, la sinfonia del Nabucco». Altro scroscio di applausi, e finalmente Muti può dare l’attacco all’orchestra, la Filarmonica della Scala trionfante all’esordio nel mitico tempio musicale con un concerto sinfonico tutto italiano. «Ma quando risuonano il nome e la musica di Verdi», dice nel camerino un Riccardo Muti raggiante di pallor nel viso segnato da una graditissima fatica, «in ogni parte del mondo dal podio avverto come un fremito di piacere nel pubblico. Verdi sa entrare nel cuore e nella mente come nessun altro compositore».

In ogni dove, da più di mezzo secolo Muti conduce una campagna mondiale che potrebbe avere come titolo “Giù le mani da Verdi”. Non c’è occasione che il maestro non colga per spiegare, sempre con empito alimentato dall’orgoglio di essere italiano, la grandezza artistica, culturale e morale del grande bussetano: «Musicista raffinatissimo e patriota autentico che noi abbiamo il dovere di difendere». Verdi, sempre Verdi: l’ostinata, eroica dedizione alla causa verdiana è per Muti un quotidiano atto d’amore in difesa dell’arte e della cultura italiane. Una missione salvifica contro le profanazioni perpetrate a danno del sommo Peppino condotta con l’esempio di una rigorosa analisi interpretativa e assoluto rispetto della volontà del compositore. Lezioni al pianoforte, nota dopo nota; prove estenuanti, cura del minimo dettaglio. Accademia per la formazione di giovani direttori. Ed esecuzioni sempre di altissimo livello: certe volte da shock, da sindrome di Stendhal.

A New York nel ’92 dopo una Messa da requiem alla Carnegie Hall, per una buona mezz’ora il maestro restò imbozzolato in un silenzio che il cronista tentava invano di rompere a fini di intervista: «Ma no», disse, «non vanifichiamo con le nostre parole la magia che ci è rimasta nell’anima ancora tutta pervasa dall’emozione suscitata dal capolavoro di quel fenomeno capace come nessun altro di parlare a Dio in nome dell’umanità: la disperazione e la supplica dell’uomo davanti al mistero della morte e dell’aldilà».

Busseto, dicembre 1997, la cittadinanza onoraria, la banda e i festeggiamenti nel Teatro Verdi. Nel salone museo di casa Barezzi, Muti sfiora i tasti del forte-piano usato dal giovane Verdi: «Dio mio, ricorderò questo momento per sempre. Suonare qui, dov’era lui. Non mi sembra vero. Sentite la perfezione del motivo del duetto d’amore nel Ballo in maschera» dice Muti infiammandosi al pensiero di «certe esecuzioni piene di note non scritte da lui, di effettacci, acuti belluini, accompagnamenti pesanti, zum-pa-pa-zum grevi e insultanti. Per fortuna io ho avuto come insegnante Antonino Votto, collaboratore di Arturo Toscanini». Già Toscanini, tradito dal discepolo Riccardo con il “Va’ pensiero” bissato nel 1986 all’esordio come direttore musicale alla Scala. Infrangendo la proibizione toscaniniana di concedere “bis” in corso di rappresentazione.

«Durante l’esecuzione sentivo che in teatro lievitava un clima particolare, di partecipazione civile oltre che artistica» ricordava Muti. «L’ultima nota del coro e l’esplosione di gioia, applausi e clamori rombano insieme. Dopo dieci minuti tento di riprendere l’esecuzione: per tre volte alzo la bacchetta e ogni volta il pubblico ci sommerge di ininterrotte clamorose ondate: bis! bis! bis! Che fare? Se non concedo il bis deludo questo pubblico, se lo concedo rompo una tradizione scaligera. Ma mi rendo conto che stavolta l’entusiasmo della Scala stracolma e festante non è tanto per me e per l’orchestra e il coro: è per la Scala simbolo della storia d’Italia, è per Verdi, per Toscanini, per Milano e la milanesità. Guardo i coristi, a qualcuno luccicano gli occhi… Decido per il bis. Sicuro del perdono del generoso “Tiranno parmigiano”».

Già, Toscanini: cittadino onorario di Busseto nel 1913, nel Centenario verdiano. Ora nel dicembre 1997 Muti ne segue le orme. Verdi, Toscanini, la Tebaldi, Bergonzi, Parma, Busseto, Villa Verdi a Sant’Agata: «Un mondo meraviglioso che voglio scoprire in tutto il suo fascino». Curioso e sempre posseduto dal “verdismo”, una sera al termine del “Nabucco” portato nel 1988 dalla Scala a Berlino Ovest e Berlino Est, il maestro invita il cronista a cena. Ci siamo, penso, sarà per l’intervista. «Macché», dice, «sono io che intervisto lei. Il fulmine che si abbatte sul blasfemo Nabucodonosor mi ha fatto venire in mente la vicenda del giovane Verdi che in ritardo a causa del temporale si salva dalla saetta piombata sulla chiesa, uccidendo anche un prete che tempo prima... Cosa gli aveva fatto?». Gli aveva dato uno scappellotto facendolo ruzzolare. Sì, maestro, la tragedia capitò nel 1828, alla festa settembrina di popolo devoto al Santuario di Madonna dei prati. «E come aveva reagito il piccolo Verdi colpito dal sacerdote?». Maledicendolo con un «cat vegna na saièta», cioè «che Dio ti fulmini». Muti ride pervaso di buonumore: «Meraviglioso! Ma sì, facciamo l’intervista: a patto che inizi con questa mia dichiarazione: Signori direttori che maltrattate Verdi, sappiate che a tempo debito vi giungerà inesorabile la giusta vendetta del più grande operista del mondo». D’accordo maestro… «Aspetti, ho pensato anche al titolo». Grazie maestro. Sarebbe? «Riccardo Muti minaccia: per Verdi potrei uccidere».