Renzo Ravanetti, fantasie scolpite nel legno

Stefano Rotta

Un presidio di lavoro, arte, scultura, buona musica, scaldato dal fuoco della legna e dalla passione insopita di un uomo che tira avanti a forza di sorrisi e colpi di lima sulle creature lignee che mette al mondo. Renzo Ravanetti, nato a Parma il 26 febbraio 1940, da quarant’anni frequenta le alture della val Baganza, avendo sposato una donna di queste parti. Ci racconta volentieri l’infanzia agricola dalle parti del quartiere Montanara, in quegli anni – gli ultimi – in cui era ben lontano dal far parte della città. I suoi lavoravano in un podere dalle parti di via Navetta. «Si andava spesso a rubare le fragole, da bambini». Sorride: «Mio nonno abitava alla Negrona, dove è venuta fuori l’acqua in ottobre. Conoscete la Bargnòcla? Ecco, allora avrete presente quando dice “robär i frò ala Negrón’na da Ravanètt“». E’ figlio di contadini, di gente cui piace leggere e conoscere: la mamma Annetta Grossi, il babbo Carlo, persone che «sapevano fare tutto». «Mi ricordo del tram, avevo sette anni». Che si faceva? «Si stava dietro alle galline, si andava a prendere le uova, si stava dietro ai maiali». Le regole della vita le abbiamo imparate così: dalla terra e dai bei «scopasòn» dei genitori. Sono sette fratelli, in quella famiglia sospesa fra città e West. Davanti gli passavano i capironi con il latte per il parmigiano, nei carri. Fu lì che quest’uomo, come dice lui, cominciò a «sboraciar con d’la legna». La scultura era venuta fin qui a trovarsi un paziente adepto. Il contadino lo fa fino al 1997, con il fratello. In montagna, che Renzo conosce per via del matrimonio, prende in affitto un pascolo, con il cavallo e le manze. Le bestie brucano recintate, «la domenica s’andava a controllare col fratello Sergio». Quando sono andato a star via da San Lazzaro, dopo la Negrona, ci siamo trasferiti a Bianconese, quattro anni poi Carignano, sotto il marchese Malenchini, azienda agricola Campagna. Dopo dieci anni siamo tornati nell’azienda storica, dov’è trascorso mezzo secolo, fino alla pensione, sulla strada verso Beneceto. «Il tempo in campagna non è mai perso». Oggi sta finendo un padre Lino: statua molto bella, le sue mani sono perite e amorevoli. Un noce massiccio con lo sguardo del sant’uomo. Ha realizzato la statua di San Genesio ad Albazzano. «San Genesio era un cantastorie ai tempi di Roma», dice. Sua è la statua di Cristo Risorto (comprata dal signor Pizzati) del convento di Costa di Bosco di Corniglio. Intorno a lui, nel suo scrigno sulla strada che da Ravarano va verso Berceto, le arie di Verdi, i santi, un papa Wojtyla da giovane. «Non ho mai buttato un pezzo di legno», sorride. Un sorriso largo, schietto, contagioso. «Col legno da ragazzino non avevo mica tanto tempo. Lo lavoravo di nascosto, a tempo perso, in campagna c’è sempre da fare». Non si può fermarlo, nella sua serenata ai campi, che termina così: «Il contadino è il più bel lavoro del mondo». Nel frattempo fa la comparsa al Regio, «Malenchini aveva il palco» Una sera sbarcano davanti al tempio della lirica «in sei in cima a una Topolino», tutti vestiti di nero. La gente si dà di gomito sbigottita, ma da dove saltano fuori questi? Col cuore dice, «il teatro, n’ärta». E poi, giù, «l’arte nasce dalla terra». Chissà come mai, è la prima volta in questa lunga serie di racconti che saltano fuori le domeniche a piedi. Ce ne parla questo parmigiano di campagna trapiantato (e ben attecchito) in montagna: «Siamo andati con una diligenza al Tardini. Dietro il cavallo, la cariassa. Siamo partiti in sette o otto, tornati in una cinquantina». Racconta volentieri altre scene di vita agreste: «Una telefonata sola e l’aia diventava una sala da ballo. La gente si dava il passaparola e in poco tempo si radunavano tutti. Giovani, bambini, uomini e donne di tutte le età. Mai nessuno ubriaco». Si ballava magari per tutta la notte, così, per la semplice gioia di vivere. Magari per la festa della cipolla o del cocomero. Si facevano le scenette, ognuno recitava una parte, perlopiù grottesca. Immaginatevi i cieli campagnoli sul crinale del progresso, così elettrici, stellati, profumati. In quei frangenti felici si aggirava un ancora imberbe Gabriele Zilioli, oggi affermato : «Avevo dodici o tredici anni – racconta – erano i primi approcci con il pubblico e con la batteria. Nelle feste dell’ultimo dell’anno venivano anche settanta persone, eccezionale. Erano i primi anni Settanta. Ho ricordi non belli, meravigliosi». Tutt’oggi che ha due figli grandi, Carlo e Paolo, lo chiamano Geppetto, cosa normalissima per chi prende il binario del legno, nella vita. S’impenna: «L’arte è una cosa che mi dà gioia, il bello noi italiani l’abbiamo nel sangue. L’arte è trasmettere gioia»; non risparmia una battuta, sempre affettuosa, «a quei chi fan du scaraboc». E un po’ di orgoglio, assai michelangiolesco, che lavorare un tronco di pero fin a farlo pensare è diverso che far due scarabocchi.