Stefania, «la straniera» che sfidò la guerra per amore

Chiara Cacciani

Ogni tanto si arrabbia, Stefania. Quando - 96 anni ieri, 74 anni dopo aver lasciato per la prima volta e per sempre la sua Jugoslavia-, non ricorda più bene «come si diceva nella mia lingua». Neanche il suo nome si scriveva proprio così, in slavo. E' stato l'amore a dargli il suono che l'ha accompagnata nella sua seconda vita: quella al fianco di un alpino di Ramiola a cui aveva offerto un bicchier d'acqua alla fontana dell'isola di Bol.

Non ci fosse stata di mezzo la guerra, questa di Stefania Radic e Igino Bernini sarebbe «solo» la storia di un sentimento subito grande, capace di cambiare due vite con la stessa semplicità di berlo, quel bicchier d'acqua. Invece nel 1941 la Seconda Guerra Mondiale aveva già bussato alla porta coi suoi orrori e i suoi presagi di morte, e quell'amore così semplice, prima di guardare al futuro, ha dovuto attraversare un Paese e i suoi mari, trovare la felicità in una baracca e poi solo sognarla tra un campo di concentramento e le montagne partigiane.

Ma questo è già un buon punto del racconto, e vale la pena fare un passo indietro. E ripartire da quella bambina nata in Cile da genitori slavi emigrati per fuggire alla povertà, tornata in Jugoslavia a 5 anni e subito abituata al lavoro duro e ai sacrifici. Cuciva ancora prima di andare a scuola, Stefania. E a neanche 10 anni lavava i panni altrui e trasportava l'acqua dai pozzi per rifornire l'albergo dell'isola. L'acqua che toglie (un po' di infanzia e di leggerezza); l'acqua che dà: è il 1941 quando a Bol arriva un battaglione di alpini italiani tra cui c'è il 21enne Igino Bernini. Ha il compito di tenere i rapporti con la popolazione e avvisarla di ciò che accade intorno al loro. Ed è alla fontana che incontra Stefania: lei sta tirando su l'acqua e gliene offre un bicchiere. Da quel giorno si vedranno tutti i momenti possibili. E quando con l'armistizio dell'8 settembre Igino torna in Italia, Stefania ci mette poco a decidere dove vuole che sia «casa».

E' schiva, Stefania. Ma i suoi ricordi li ha affidati con cura ai nipoti Michele e Alessandro. Ed è proprio Michele a «tradurre» le emozioni e le conseguenze di quell'amore a prima vista. «Per un po' i miei nonni non hanno avuto la possibilità di avere notizie l'uno dell'altro. E alla fine, nonostante le resistenze dei suoi genitori, la nonna ha scelto di andare a cercarlo». Un viaggio lungo, per terra e per mare, a piedi, con passaggi donati e come clandestina su un traghetto che ha seguito il perimetro italiano ed è attraccato a Genova.

Con la solita tenacia e un po' di fortuna, Stefania è arrivata a Ramiola e ha chiesto di Igino. Da quel momento -subito con diffidenza, poi con affetto - lei è stata «la straniera», la prima ad arrivare in paese, e la coppia si è trasferita nella baracca nota come il poligono. Una vita alla giornata: lui tra lavori da muratore e raccolta della legna, lei a raccogliere il piombo dei proiettili nei boschi, avvisata ogni volta dal fido cane Febo dell'arrivo dei fascisti. Tranne quel giorno del rastrellamento, quando era quasi impossibile sfuggire. Finì in un campo di concentramento a Trieste, Stefania, e fu ancora una volta l'acqua a cambiarle la vita. E a salvargliela. Un generale nazista la vide lavare i panni e decise di metterla a servizio in casa. Trattata in modo così disumano da dover rubare cibo nella ciotola del cane per sopravvivere alla fame e alimentare la speranza. Pochi giorni prima della Liberazione la famiglia tedesca - preallertata - scappò e la lasciò nella casa vuota a inventarsi un ritorno. Non aveva più avuto notizie di Igino, che nel frattempo si era unito ai partigiani, ma sapeva che se fosse stato vivo l'avrebbe cercata lì, nella baracca del poligono.

Fu lei, in realtà, ad aspettare lui per pochi ma lunghissimi giorni, ma il finale è quello: un bel finale. Continuato con la nascita di Maria e il trasloco in città, in quel quartiere Montanara che allora era tanti campi e poche case. Quella dove andarono ad abitare i Bernini, in via Navetta, era stata costruita dall'impresa in cui Igino lavorava come muratore: la stessa che nel tempo ha realizzato la chiesa parrocchiale. Quando Igino se ne è andato, nel 2008, Stefania è rimasta lì: a custodire quell'amore e a guardare il mondo con quella straordinaria sensibilità che le permette di leggere il cuore degli altri.

Dalla finestra di casa ad ottobre ha visto scivolare il fango dell'alluvione. «Non ho bisogno: ho le candele. E ho fatto la guerra», ha rassicurato i familiari. Ma una guerra è abbastanza, anche solo da ricordare. E quando il nipote l'ha raggiunta, l'ha presa tra le braccia e se l'è portata via. Tenacemente, come lei ha insegnato.