Dal '44 «Mario» rimpiange Juan
Paolo Grossi
La Resistenza non «è una cagata pazzesca»: se chi imbratta i muri con simile fesserie (com'è successo proprio a Parma) non è stato purgato vuol già dire che a qualcosa è servita. La Resistenza è stato un movimento cruciale per la nostra storia: 250mila giovani hanno impugnato le armi per dare il loro contributo alla cacciata dei nazisti dall'Italia. E lo hanno fatto a dispetto di tanti altri coetanei, di fede fascista, con cui si sparavano addosso in un clima di terrore, delazioni, odio. Quando la parola passa alle armi gli eccessi sono dietro l'angolo. Chi ha «vinto» ha evidenziato quelli altrui, la storia ne ha fatti emergere altri di matrice opposta.
Sergio Dallatana è un fiero signore che oggi ha 92 anni. Alto, due occhi grigi luminosi e guizzanti, è tra gli ormai pochi superstiti di coloro che imbracciarono le armi sulle nostre montagne. «Per cinquant'anni non ho voluto parlare della mia esperienza tra i partigiani – ci racconta – ho lavorato a lungo all'estero. Poi ex compagni mi hanno coinvolto nell'opera di testimonianza di quelli che secondo noi sono i valori della nostra lotta di allora. E così nelle ricorrenze ma anche nelle scuole, agli studenti, raccontiamo che cosa ci spinse ad andare in montagna a sfidare pallottole, freddo, fame, pidocchi, paura, per cercare di creare un Paese diverso, libero».
Dallatana però è convinto che «la troppa retorica sull'epopea partigiana non rende giustizia alla Storia. Ne ero già consapevole il 25 aprile del '45, quando arrivai a Parma dopo aver rocambolescamente «liberato» Felino: non volli sfilare nella parata, me ne stetti in disparte, ma sapevo bene perché avevo lottato».
Ma prima Dallatana, nome di battaglia Mario, ne aveva passate parecchie. Dall'arresto con trasferimento a Palazzo Rolli, di fronte al Petitot, dove venivano torturati i dissidenti, alla rocambolesca fuga con la complicità di un agente fascista amico d'infanzia. E poi la montagna, dove Dallatana si ritrova suo malgrado protagonista di uno degli episodi più controversi della Resistenza nel Parmense: l'«epurazione» del comandante Juan. Una storia narrata da Ubaldo Bertoli nel suo libro «La Quarantasettesima» e in alcuni suoi quadri, e che Valerio Varesi e Gianni Riccò qualche anno fa hanno messo al centro dei loro romanzi «La sentenza» e «Il comandante Juan». Mario Rinaldi l'aveva riportata, con l'ausilio dei verbali del processo, nel suo «Dal Ventasso al Fuso». Ne parlano diversi testimoni (tra cui lo stesso Dallatana) anche nel film-documentario «La Quarantasettesima» di Primo Giroldini. Insomma, non è un fatto nuovo ma val la pena ricordarlo perché nell'animo di Sergio Dallatana produsse una cicatrice che non si è più rimarginata. «Juan era il mio comandante al distaccamento Zinelli. Ed era un bravissimo comandante, l'unico, a mio parere, assieme al russo Pigorov, detto ''Modena'', che conoscesse davvero le tecniche di guerriglia necessarie sulle montagne contro un esercito ben superiore al nostro. Le aveva apprese nella Legione Straniera, per la quale aveva combattuto in Africa».
Juan si chiamava Gianni Di Mattei, classe 1914, ed era evaso dal carcere di Parma quando i muri erano crollati sotto le bombe alleate, trovando riparo in montagna. Stava scontando una condanna a vent'anni per omicidio. «Ma in montagna si comportò benissimo. Divenne comandante in virtù della sua preparazione bellica e del suo carisma». Juan però è insofferente verso la gerarchia del Comando di Brigata, che da parte sua aveva l'esigenza di ordinare il movimento partigiano per renderlo credibile agli occhi della popolazione che doveva sostenerlo. Nascono contrasti, a Juan si perdona un altro omicidio, quello di Truk, che, dopo aver alzato il gomito, minacciava di far scoppiare una bomba a mano davanti all'osteria di Trincera prima che Juan lo fulminasse con una pallottola in fronte. «Legittima difesa» e se la cavò, ma veniva visto con diffidenza dai suoi «superiori», a pochi dei quali comunque Juan riconosceva tale autorità. La situazione degenerò il 10 ottobre '44 quando l'ex legionario spostò i suoi uomini dalla posizione assegnata durate un attacco dei tedeschi, che poterono così aggirare altri distaccamenti partigiani e causare sette vittime. Il 18 ottobre con uno stratagemma Juan fu attirato alla sede della Brigata, a Case Valla di Ranzano. L'uomo che lo accompagnava fu freddato subito da una raffica di mitra («di lui non si è più saputo niente, neppure dove sia stato sepolto» racconta Dallatana), il comandante disarmato e processato su due piedi. Accusatore Ilio, cioè il commissario politico della Brigata, il siciliano Luigi Cortese, difensore Gino, cioè proprio Ubaldo Bertoli, che però nel suo romanzo sorvola sul ruolo avuto nel processo. Presidente il comandante William, Massimiliano Villa. In un'atmosfera lugubre e buia, in un salone pieno di partigiani, Juan viene condannato all'immediata fucilazione, eseguita in particolare da un certo Tom che poche settimane dopo farà la stessa fine perché scoperto infiltrato dai fascisti. Bertoli nel suo libro racconta che all'indomani una certa Maddalena, staffetta partigiana ''morosa'' di Juan, e un vecchio ingobbito con una vanga e un carretto andarono a recuperare il corpo di Juan sotto le poche dita di terra che lo coprivano, per poi farlo sparire chissà dove. E qui, bonariamente, Dallatana non ci sta. «Ho sempre detto al mio amico Ubaldo che ha romanzato troppo perché quel vecchio ero io, ma avevo 19 anni e non ero certo gobbo, visto che non lo sono neppure adesso... Avevo il cuore gonfio, invece, e scavando anche con le mani per scoprire il mio comandante piangevo a dirotto. Il corpo l'avevamo poi portato al cimiero di Vairo, il paese di Maddalena. Non so, negli anni, dove e come sia stato traslato. Quello che mi chiedo ancora oggi, e con la forza di allora, è perché fu ucciso. Fu un processo stalinista, un eccesso. Io ho poi conosciuto Charles Holland, il responsabile della missione inglese. Gli ho fatto a lungo da staffetta. A lui non importava se Juan o chi altri avessero dei precedenti penali. Lui aveva solo l'incubo dei comunisti. Quando Juan ci ha spostato dalla posizione assegnata è perché lì eravamo sotto il tiro dell'artiglieria tedesca piazzata a Vetto: ci avrebbero massacrati tutti. Ma non siamo fuggiti, abbiamo anche risposto al fuoco, ma con le munizioni che avevamo... L'hanno anche accusato di aver un giorno minacciosamente circondato il Comando con i suoi uomini, ma lui era solo andato a reclamare armi più efficienti portando tutti gli antiquati moschetti che avevamo. No, per me non era un uomo da uccidere Juan, e in tanti gli volevano bene. La sera prima che morisse eravamo stati a cena a casa del sindaco di Palanzano Maggiali, trattati con grande cordialità». A distanza di oltre settant'anni la difesa di Dallatana è ancora accorata. «Ma non mi interessa fare polemiche, anche perché chi c'era allora non c'è più». Compresa Maddalena Madureri, che fino alla fine della guerra farà la staffetta per gli Alleati dai quali riceverà anche un'onoreficenza. Di Juan nelle Valli dei Cavalieri e del Cedra è rimasta a lungo la «leggenda» del comandante sul cavallo bianco, con il mitra a tracolla e sul calcio una tacca per ogni nemico ucciso. Se Dallatana oggi la rivanga è per restituire dignità all'uomo (e lo hanno fatto pure Varesi e Riccò con i loro scritti) ma anche per ricondurre l'epopea partigiana a una dimensione più vera, magari imperfetta, ma con l'imperfezione degli uomini, comunque generosi, e non la sacralità di icone poco verosimili.