In cinquantamila per l'airshow
Luca Pelagatti
C'erano i vecchi signori con l’elica, con i colori della divisa sempre addosso nonostante l’età, pronti a girotondi in cielo per mostrarsi ancora vigorosi a quelli di ultima generazione, boriosi dei loro muscoli rombanti e delle fiammate dai reattori. Ma anche gli elicotteri immobili in aria come ciclisti in surplace e i mosconi da acrobazie, macchine volanti ispide di spigoli e tutte nervi, in apparenza fragili come giocattoli. Ma in realtà rapidi come colibrì.
Soprattutto c’erano tante persone: famiglie accaldate e appassionati con il binocolo e il cappello con il simbolo dell’aquila turrita, bambini ammutoliti e composti signori coi capelli bianchi. Ma tutti, in fondo, ugualmente ragazzini di fronte al miracolo di qualcosa che si solleva e si arrampica nel blu. E che magari nel farlo si permette pure una capriola e uno sberleffo alla gravità.
Da quaranta a cinquantamila persone: se l’Airshow 2015 doveva essere una festa di sicuro è riuscita. Tutti hanno voluto esserci, tutti hanno applaudito e alla fine hanno guardato il cielo di quattro colori – blu, bianco rosso e verde – e si sono incamminati verso casa guardandosi timidamente indietro. Con la speranza, neppure troppo nascosta, che il pomeriggio con il naso per aria non fosse ancora finito. E dall’orizzonte arrivasse un'altra strana cosa con le ali a fare compagnia.
Che si trattasse di un successo annunciato lo si capiva già di prima mattina: cielo terso quasi da montagna, brezza gentile e gente già in coda poco dopo le 10 per prendere posto. E quelli coi camper, addirittura, erano arrivati la sera prima. All'apertura dei varchi molti erano in coda ad aspettare: e prima dell’inizio dello show mancavano ancora due ore e mezzo abbondanti.
Quando poi, poco dopo le 15, lo speaker ha dato il buongiorno al popolo dell’aria i prati intorno al «Verdi» erano una tavolozza di gente. Ma tanti altri erano ancora incolonnati. Per tacere poi dei tanti, certo altre migliaia, che hanno scelto altri prati, da San Pancrazio in giù, per stendersi sull’erba e farsi portare via, verso l’alto da un tonneau e da una picchiata.
Alle 15.09 in punto, per primo a presentarsi, è stato l’elicottero HH 139 del 15° Stormo: un bestione leggero come uno degli ippopotami disneyani del film «Fantasia», che prima ha salutato i presenti con la bandiera gialloblu, omaggio alla città, e poi ha simulato il recupero di un ferito al suolo. «Questo è il nostro mestiere: salvare vite umane», ha scandito al microfono lo speaker ricordando come questi giganti coi rotori arrivino a fare il lavoro duro quando qualcuno ha bisogno. E che per farlo serve un cuore grande come i motori che lo spingono in aria.
Poi, come detto, un vecchio signore: il T 6 guidato dal comandante Pino Valenti, gloria locale e nome celebre tra chi guarda il mondo dall’alto. Non foss’altro perché sono cinquantacinque gli anni passati dal giorno del brevetto. E da allora di stare coi piedi per terra non ne ha mai voluto sapere.
Il T 6, coi colori dei Marines ha dimostrato di essere di scorza dura. Così come l’aereo che lo ha seguito, lo Yak 9 del milanese Paolo Gavazzi, erede di una stirpe con la cloche nel Dna, che è andato a ripescare questo velivolo russo dei tempi della guerra fredda. E lo porta in giro come fosse un ragazzino.
Una sfida tra veterani? Poteva sembrarlo. Ed ecco allora tornare Pino Valenti e il suo Fiat G59, un altro pezzo di storia con le ali, l'unico esemplare di questo aereo che ancora vola e che lo sa: con la fierezza dell'esperienza è andato a pescarsi gli applausi dei tanti che, sotto il sole, non sapevano smettere di guardare in su.
Quindi sono arrivati altri cinque distinti signori del passato, dei Pilatus C3 della pattuglia acrobatica svizzera Pc3 Flyers: aria bonaria e motore senza troppo fiato hanno inscenato i loro duelli sul filo di fumo. I loro arabeschi sulla verticale della pista hanno fatto venire in mente certe scene dei film su Pearl Harbour: e chi ha potuto sentire in cuffia le loro conversazioni via radio ha confermato che i piloti sfiorandosi facevano anche il rumore delle mitraglie con la bocca. Dimostrazione che volando forse, si resta giovani.
Poi dopo il sibilo del Siae 211, un jet che ha girato il mondo prima di tornare a casa sua, in Italia, la danza di Rudi Natale, nazionale di volo acrobatico e virtuoso della beffa alla forza di gravità. Il suo ondeggiare in cielo faceva pensare alle magie di un ginnasta come Yuri Chechi. Ma qui gli anelli erano le frange delle leggere nuvole spinte dal vento.
Poi ancora un veterano: lo Yak 52 dominato dall’ex colonnello ungherese Vary Gyula. Il suo spettacolo è il trionfo della volontà e dell'allegria. Tanto che quando è atterrato si è concesso anche il vezzo di imballare il motore e sparare nuvole bianche sulla pista. Ridendo poi in inglese con i controllori: «Ho fatto abbastanza fumo o ne serve ancora?».
Dall’inizio dello show è passata ormai un'ora e mezzo e il caldo si fa sentire. Ma il bello sta per arrivare e a nessuno è venuto neppure in mente di staccare gli occhi dall’orizzonte. E il premio arriva: prima l’elicottero Aw 149 del Reparto Sperimentale che dimostra che anche chi vola senza ali può permettersi il lusso della leggerezza e poi, tuonante, l’Efa 2000, detto non a caso Tifone, una macchina da top gun, un ruggente drago del cielo. Le fiamme che esplodono dai suoi reattori quando sale in verticale nel cielo hanno qualcosa di spaventoso. Quasi che la scienza avesse incrociato il mito.
Ma ormai l’ora è arrivata, sono le 18 e quello che tutti aspettano è all’orizzonte. Le Frecce sono un punto che diventa un rombo: geometrico e sonoro. Quando il cielo si colora di tricolore il brivido scuote la folla che non aspetta altro. E il commento dell’anziano che scuote la testa coprendosi gli occhi dal sole che l'acceca è una sentenza: «Non sembrano neanche veri».
Sono venti minuti di emozioni e batticuore con il fischio dei reattori e la voce di Bocelli, il colore dei fumi e quella nebbia impressionista che copre la pista. Tutto si mischia mentre in cielo compare un enorme cuore e gli MB 339 si sfiorano correndo in ogni direzione. Alla fine, come sempre, è il «Nessun dorma» di Pavarotti la colonna sonora del più grande tricolore al mondo. E anche se si sa, se questo è il copione sempre uguale la sorpresa resta grande come la delusione nel vederli andare via.
Mentre i quarantamila sfilano a piedi verso i parcheggi, le case e la sera che li aspetta una voce vale per tutti: «Speriamo di rivederli presto». Speriamo.