Franco Nero: «La Parma che sogno»
Gabriele Grasselli
Niente, non c'è verso. Non ci sono scandali, corruzione, criminalità ai massimi storici, retrocessioni sportive e non, appannamenti d'immagine: Parma per chi è lontano, per chi non la vive, per chi ne ha conosciuto gli splendori, per chi gira il mondo e sta nel mondo è ancora «una città meravigliosa», la città che nel 2014 il quotidiano britannico «The Telegraph» ha classificato al quarto posto tra i luoghi migliori del pianeta per qualità della vita. Perciò perché stupirsi se Franco Nero, uno dei suoi figli più celebri, attore, anzi star internazionale, ripete la consueta lusingante litania? «Parma? Ma tutti la conoscono e sanno quanto è bella e raffinata.... Aaaah, il cibo, Verdi, il Regio, il profumo... Tutto il mondo conosce Parma». Oleografia, dunque. Per fortuna.
Ma lei da quanto tempo manca?
«Da non molto. Sono venuto per il documentario con Vittorio Storaro e poi recentemente a trovare mia sorella. Erano belle giornate, abbiamo girato in lungo e in largo in bicicletta, con lei, mio cognato, mio nipote, in centro, al parco, a prendere il gelato, l’aperitivo, tutto in bici… Fantastico. In quale altra città si può fare, vedendo delle cose così belle?».
Beh, lei vive a Roma…
«A Roma? In bicicletta? Ci provi. Ma in qualunque altra città, provateci…. No, Parma è una città speciale. E anche i dintorni. Langhirano, per esempio. Io ci ho portato certi amici: con prosciutto e malvasia secca ho fatto un figurone. Meglio di ostriche e champagne. Guardi, la fama di Parma non è per niente offuscata: il parmigiano, i salumi, la violetta. Tutti appena nomini Parma dicono “oh, yes, that wonderful ham”... E l’eleganza: a Parma la gente è elegante, sarà per via dell'impronta lasciata da Maria Luigia. In fondo veniva chiamata la piccola Parigi. O no?».
Delle battaglie del sindaco Pizzarotti con Grillo e i 5 stelle cosa sa?
«Non seguo la politica».
Del Parma finito in serie D?
«Eh quello è un peccato».
Franco Nero, 75 anni, è sempre su e giù dagli aerei («negli ultimi nove mesi ne ho presi 70»): basta dare un'occhiata ad Internet Movie Data Base, la superaggiornata Bibbia web del cinema, per rendersi conto che è stato ed è uno degli attori italiani più richiesti all'estero e più attivi con film - tra conclusi, in produzione o post-produzione - già in calendario per il 2017. Pellicole italiane e non, con registi e coprotagonisti di tutte le cinematografie del mondo. Ed è così da decenni. Sarà per questo motivo che ogni tanto l'uomo che è stato il Django originale (nel 1966), il capitano Bellodi del «Giorno della civetta» (David di Donatello come migliore attore del 1968), il Lancillotto che fece innamorare nella finzione e nella realtà Vanessa Redgrave, pronuncia qualche parola con una leggerissima ma percettibile sfumatura anglofona. Storpia anche un po' qualche nome («la scuola? Non mi ricordo... Il Meloni, è possibile?». Oppure via Farini che diventa via Farina...), e Parma non la chiama città ma cittadina. Comprensibile, lui è abituato a Londra e Los Angeles. Nitidissimi però i ricordi della gioventù nella terra natale.
Dove abitava?
«Ai Prati Bocchi. Sono rimasto lì fino ai 18 anni. Abitavo in viale Piacenza in uno di quei due caseggiati che fanno angolo. Ci sono ancora. In mezzo c'era un campo. Lì giocavamo a pallone e tutti dalle finestre, dai balconi seguivano le nostre partite, le mamme, i fratelli e le sorelle, tutti facevano il tifo. Un divertimento folle. Poi a un certo punto scoprii la pesca e allora facevo spessissimo avanti e indietro dal Taro. Quella era una vita semplice, serena. Pochi soldi ma nessuno ci badava. Era come se si sorridesse tutto il giorno, tutti i giorni».
Ecco: per caso è questa la Parma che vorrebbe davvero, quella che non c'è più in un'Italia che non c'è più?
«Forse. Sì»
Poi a un certo punto però deve avere scoperto anche la vocazione di attore...
«Sì. Avevo proprio il sacro fuoco. E mi prendevano in giro: “Ma cosa vuole fare, dove vuole andare quello lì?”... Io imperterrito cercavo di organizzare spettacoli, a scuola, in parrocchia».
Non succedeva niente?
«Poco. Però a 16 anni Mario Lanfranchi, il marito di Anna Moffo, mi fece debuttare al Regio».
Addirittura
«Beh, stava mettendo in scena “I Puritani”. Mancava un corista. Mi chiamò sul palco: “Tu mettiti lì, fai finta di cantare e basta...”. Ecco, il Regio: tutti nel mondo sanno che importanza ha quel teatro per una carriera, l'influenza che hanno gli intenditori parmigiani».
E il sogno del cinema?
«Un sogno grande. Alle tre del pomeriggio ero già al Verdi, al primo spettacolo. Ecco cosa non mi piace adesso di Parma....»
Ah, qualcosa che non va c'è allora?
«Beh, sì, sono sparite le sale “normali”. Anche lì tutti multiplex. E' finito il rito del cinema, il cerimoniale. Adesso si va in questi hangar come si andrebbe al supermercato. Che film ci sono? Per quello non c'è posto? Allora andiamo a vedere quell'altro. Ma scherziamo?»
Quando finalmente sfondò che cosa successe?
«Venne fuori quello che è il principale difetto dei parmigiani. I parmigiani sono un po' presuntuosini, poco umili, a loro piace molto tagliare le gambe a chi cerca di emergere, di inseguire il successo».
Però!
«Sì, è vero. Furono così anche con me: “Mo' co' vol fer col'lì...”
Ha legato al dito la questione «Camelot»?
«Ah, beh, quella non la dimentico sicuramente».
«Camelot», film datato 1967, musical un po' fuori tempo massimo, grande produzione americana, fece conoscere Franco Nero e Vanessa Redgrave, l'attrice inglese, icona e premio Oscar, da cui ha avuto il figlio Carlo Gabriel. La pellicola non fu certamente un successo, né in patria né da noi. E per il nostro resta un ricordo amaro.
Cosa successe?
«La “prima” a Parma fu un disastro, tutti fischiavano, un critico mi disse che ero rovinato, che avevo chiuso. Ridevano perché cantavo. Io avevo portato mia madre e Vanessa. Ci rimasi malissimo, mi offesi molto».
E' venuto altre volte a Parma con la signora Redgrave?
«Sì, sempre negli anni Sessanta. La portavo in Ghiaia e le facevo vedere i negozi dove avevo fatto il garzone per guadagnare due lire, il forno, la pasticceria, la gelateria dove chiamavo gli amici a mangiare i coni di nascosto... E lei era affascinata da tutto».
Quanto è durato quel rancore verso la sua città?
«Ma pochissimo. Pochissimo. Sono sempre tornato contento di tornare perché ci sono sempre stato bene. Mi ricordo le chiacchierate in piazza Garibaldi con Maurizio Chierici. Mi raccontava storie bellissime, di quando con Biagi avevano trovato Serpico, mi parlava di Fratello Mitra, della Cina. Nel '76 mi intervistò in Germania dove io stavo girando “21 ore a Monaco” con William Holden... Quelle chiacchierate le ho nel cuore».
Qualcun altro nel cuore?
«Mio padre. Era un carabiniere. Era severo. Oggi lo ringrazio di essere stato severo».
Suo figlio è mai stato a Parma?
«No, ma prima o poi deve venire. Ed è stranissimo perché invece ci sono state, da piccole, Natasha e Joely (avute da Vanessa Redgrave con il regista Tony Richardson, ndr), le chiamo figlie anche loro, le considero mie. Purtroppo Natasha l'abbiamo persa... (nel 2009 a 45 anni dopo un incidente sugli sci, ndr)...»
Lei ha appena finito un film in Romania, adesso ne sta girando uno qui in Italia sulle foibe, molti progetti cinematografici sono in cantiere. Un altro Tarantino in vista c'è?
«Per ora no. Con Tarantino mangiamo spesso insieme a Los Angeles. Si diverte molto con me. Vuole che recitiamo insieme, gli ho già dato buca due volte».
Di cosa parlate?
«Di tante cose. Di cinema, ovviamente. Ma non solo. Della vita. Anche di Parma»
Pensa che potrebbe trovare ispirazione?
«Perché no? Parma è l'unico posto al mondo dove la gente parla in dialetto e poi traduce simultaneamente. Una cosa che a me ha sempre fatto molto ridere, mi piacerebbe girare con un microfono e registrare. Uno spasso. E penso che anche a Quentin, che cura così tanto le sceneggiature dei suoi film, una cosa del genere piacerebbe molto».
Davvero con Tarantino parlate di Parma?
«Certo. Io di Parma parlo con tutti. Sempre».