Gandini, il pistard d'oro eroe di Melbourne
Claudio Rinaldi
Franco Gandini, ottant’anni portati benissimo, è l’uomo dei record: unico parmigiano ad aver vinto una medaglia d’oro alle Olimpiadi (Melbourne, 4 dicembre 1956: inseguimento a squadre) e l'unico atleta della storia a essere stato campione del mondo per due ore, a causa di un clamoroso dietrofront dei cronometristi (Rocourt 1957). Un grande ciclista, una gran bella persona. Sabato 10 dicembre Gandini sarà a Parma alla festa per i cinquant'anni dei Veterani dello sport, che lo premieranno in occasione del 60° anniversario della medaglia d’oro olimpica.
Lei è sempre stato orgoglioso di essere parmigiano. Anzi, di San Lazzaro.
«Ho bellissimi ricordi della mia infanzia, sono sempre rimasto molto legato a San Lazzaro. Ai miei tempi non c’erano tablet e pc, si viveva nei campi, si correva tutto il giorno e si tornava a casa distrutti, alla sera. Nella stagione giusta, si passava di frutteto in frutteto. Casa mia era a 150 metri dalla Certosa, che allora era una casa di rieducazione: era come un collegio, ma io vedevo quei ragazzi e mi sembrava fossero in galera. Mi faceva molta impressione. In caso di marachelle, la minaccia tipica di mio padre era spedirmi là dentro».
Cosa faceva suo padre?
«Operaio alla Barilla, 42 anni di lavoro. E’ stato premiato a Roma con la stella al merito dei Maestri del lavoro. Gli dicevo sempre “papà, vale più la tua medaglia della mia, perché io l’ho vinta in una giornata, tu ci hai messo anni”. Ho ancora in casa il suo ritratto, dove mostra orgoglioso la stella al merito».
Con Vittorio Adorni eravate vicini di casa, oltre che quasi coetanei.
«Ci conoscevamo, quando eravamo bambini: ma lui stava a Vicopò, dall’altra parte della Certosa. E in quegli anni certe distanze erano ben più grandi di oggi. Ci siamo conosciuti meglio in bicicletta: a volte ci allenavamo insieme, facevo una gran fatica a cercare di stargli dietro in salita, e regolarmente mi staccava. Ma io lo riprendevo in pianura».
E’ vero che ha scelto la pista perché non ha mai sopportato le salite?
«Be’, sì. Le ho sempre sofferte. In generale, sono sempre stato convinto che uno deve sfruttare le proprie caratteristiche per dedicarsi alla specialità dove rende di più».
Quando ha cominciato ad andare in bici?
«Ero un ragazzino, è stato grazie a mio fratello. Gli pulivo la bici prima delle gare e ogni tanto facevo qualche giretto. Era un grande, Aldo. Aveva una classe incredibile».
Meglio di lei?
«Altroché. Mi sono sempre sentito dire da tanti campioni – da Coppi in giù – “ma se tu avessi la classe di tuo fratello, cosa faresti?”. Era fortissimo. E’ stato il primo ad andare sotto i 5 minuti nei 4.000 metri. Ha fatto 4’58”: e i cronometristi non credevano ai loro occhi. Poi, nella seconda prova, ha fatto 4’57”. Questo è un fenomeno, hanno detto tutti».
E ha iniziato a correre seriamente grazie a suo fratello.
«Un giorno sono uscito ad allenarmi con lui, abbiamo fatto la Cisa. Nel pomeriggio c’era la gara a cronometro Parma-San Secondo. “Proviamo”, mi ha detto. Sono andato e ho vinto».
Si è visto subito che la stoffa c’era.
«Si è visto soprattutto quando mi ha portato a Fiorenzuola, per provare l’inseguimento. Mi aveva dato una bicicletta in prova il meccanico Giuffredi. C’erano dei pistard famosi in quegli anni. Mi hanno fatto sfidare uno che si stava allenando per andare ai campionati italiani. La raccomandazione era “quando non ce la fai più a stargli dietro, fermati”. Ho cominciato a pedalare, stavo bene, andavo forte. Mi diranno di fermarmi, pensavo. E continuavo a pedalare. E’ finita che ho raggiunto quel campione. Mi sgrideranno, mi sono detto. Invece no. Ma quel tizio è sceso dalla bici e ha detto “basta, non ne voglio più sapere. Se mi ha battuto questo ragazzino, con ‘sta bicicletta, cosa vado a fare agli Italiani?”».
Ai campionati italiani poi è andato lei. Era il giugno 1956.
«Sì, al mitico Vigorelli di Milano, la Scala del ciclismo. Quando ho visto la pista ho preso paura, con quelle curve a 45 gradi. E chi ci sale, su quelle curve?, mi sono detto».
Com’è andata quel giorno?
«Mi ha battuto Baldini, il grande Ercole Baldini. Guido Costa, il commissario tecnico della nazionale, mi ha notato. E ha cominciato a farmi fare pratica con le specialità olimpiche, a provare con varie squadre».
Lei andava forte sia nell’individuale che in squadra.
«Sì, e Costa ha notato che ero l’unico a riuscire a tenere per almeno mezzo giro la velocità di Leandro Faggin. Era un fenomeno, andava come un treno. Faceva i sessanta all’ora: adesso fa ridere, ma allora era un’andatura da fuoriclasse. Portava in testa la squadra, però quando dava il cambio ci voleva uno che almeno tenesse la sua velocità, altrimenti si vanificava tutto il vantaggio. Io ci riuscivo: e a Costa non sembrava vero di aver trovato uno come me. E ha deciso di portarmi a Melbourne, alle Olimpiadi».
Cos’ha provato?
«Una gioia indescrivibile. Non potevo crederci. Avevo vent’anni, era un sogno a occhi aperti».
E ha “dovuto” lasciare il lavoro.
«Ero entrato a 15 anni alla carrozzeria Jasoni, in via Dalmazia. I titolari erano due fratelli super sportivi. Ho sempre lavorato, fino a due mesi prima delle Olimpiadi. Il tempo per gli allenamenti me lo cavavo dalla pelle. Quando dovevo andare in pista a Fiorenzuola chiedevo dei permessi: facevo delle ore di straordinario alla sera per avere una mezza giornata di libertà per allenarmi. Era dura, un sacrificio mica da ridere. Prima di Melbourne ho dovuto smettere, perché sono stato quasi un mese a Roma per la preparazione e poi siamo andati in Australia un mese prima delle gare, per acclimatarci. E anche perché per andare a Melbourne – con i turboelica di allora – ci sono voluti quattro giorni e mezzo. “Il posto per te c’è sempre”, mi hanno detto i titolari stringendomi la mano».
Pronti, via. Nelle qualificazioni lei ha salvato la squadra da un disastro, quando Pizzali le è rovinato addosso.
«Lì per lì non mi ero accorto di avere salvato la spedizione: l’ho capito quando, a fine gara, sono venuti tutti ad abbracciarmi. E vedendo com’era infuriato il ct Costa con Pizzali».
Com’è andata?
«Non ho mai capito come abbia fatto Pizzali a cadere. Forse ha avuto un attimo di sbandamento. È caduto proprio addosso a me. Mi ha toccato la ruota: ma io sono riuscito a tenere duro. Abbiamo finito in tre, facendo il miglior tempo delle qualificazioni. Meno male, perché se fossi caduto anch’io avrebbe significato buttare all’aria due mesi di preparazione».
Faggin, Gandini, Domenicali, Gasparella. La squadra d’oro.
«Sì, Gasparella ha preso il posto di Pizzali dopo la caduta. Abbiamo vinto la semifinale con gli inglesi e la finale con i francesi».
Ovviamente, si ricorda quelle gare centimetro per centimetro, pedalata dopo pedalata.
«Come fosse ieri, ci mancherebbe altro. Che emozione. Siamo arrivati in finale carichi come non mai, con un’adrenalina che non le dico. E chi la sentiva la stanchezza? C’era Faggin che faceva impressione per come andava forte, qualche volta tirava il giro intero. Si faticava anche solo per stargli a ruota. Io ci mettevo una tale foga che quando mi dava il cambio non facevo perdere un centimetro di tutti i metri che aveva guadagnato. Abbiamo vinto la finale con una trentina di metri di vantaggio, un’enormità».
E i suoi genitori?
«Una gioia incredibile anche per loro. Ho telefonato a casa quando sono atterrato a Roma, perché allora dall’Australia era impossibile chiamare l’Italia. Ho detto “salgo su un treno a arrivo a Parma”, e loro hanno sparso la voce tra i miei amici».
Come l’hanno accolta?
«In stazione ho trovato una macchina con dei cartelli appesi. Alle dieci di sera abbiamo fatto viale Mentana strombazzando con il clacson, la gente ci prendeva per matti. Ma ne valeva la pena, con una medaglia d’oro al collo».
E il giorno dopo?
«La gente stentava a credere. Le Olimpiadi non avevano avuto grande risonanza: in dicembre in Italia “comandava” il calcio. In tanti mi hanno detto “hai visto che ha vinto l’oro un certo Gandini?”. Ma come?, sono io!».
Pochi mesi dopo, un altro successo: ai campionati italiani individuali di inseguimento a Firenze.
«Ho battuto Simonigh, con quasi cinquanta metri di vantaggio».
Simonigh, un nome che fa male, ancora adesso.
«Un giorno indimenticabile. I Mondiali in Belgio a Rocourt, nel ‘57. Sono stato campione del mondo per due ore, prima della beffa».
Beffato da Simonigh, appunto.
«Soprattutto dalla Federazione. Simonigh non aveva nessuna colpa. Siamo arrivati in finale, io ero favoritissimo, perché lo avevo sempre battuto. Sono partito subito forte, poi un colpo di pistola ha interrotto la gara: aveva forato. Ho continuato a pedalare. Forse ho preso freddo, o forse mi sono innervosito: non so. Fatto sta che quando hanno dato la seconda partenza non ero più io: un mal di gambe terribile, non riuscivo a spingere. Abbiamo duellato al centimetro per tutta la gara. Alla fine, un giudice dava la vittoria e me e uno a Simonigh. Poi il verdetto ufficiale: “Ha vinto Gandini”. Festa, lacrime di gioia. E ancora liti tra i dirigenti».
Come mai?
«Una parte della federazione non era convinta. I giudici internazionali hanno detto “sono due italiani, decidete voi”. Dopo la cerimonia di premiazione, sono andato a letto, stanco e felice. Ho riposto la maglietta iridata su una sedia e mi sono messo a dormire. Alle 2 di notte sono venuti a bussare alla porta: c’erano alcuni dirigenti della Federazione e, dietro di loro, Simonigh. “Ha vinto lui”, ha detto uno. E mi hanno obbligato a consegnargli la maglia iridata, anzi ho dovuto aiutarlo a indossarla davanti ai fotografi».
E lei come ha reagito?
«Piangendo come un bambino. Credo sia stato il pianto più lungo della mia vita. Mi è stato vicino per tutta la notte il grande Giannetto Cimurri, massaggiatore della nazionale e di Coppi. Ero ferito soprattutto dal modo in cui si erano comportati. La mattina dopo, quando mi sono svegliato, pensavo di aver fatto un brutto sogno. Invece no. E allora ho rifatto la valigia in quattro e quattr’otto e sono andato in stazione, ho preso il primo treno per l’Italia e sono tornato».
Quando è riuscito a smaltire la rabbia?
«Mai. Per tanto tempo avevo un tale nervosismo che volevo sempre stravincere, cercavo di stracciare tutti. La gente mi riconosceva come quello a cui avevano tolto la maglia, più che come il campione olimpico. Sono passato subito professionista, con l’Atala su strada e la Lygie in pista».
Le piaceva correre anche su strada?
«Mi serviva per fare il fondo, per andare poi forte in pista. Ho fatto più volte la Milano-Sanremo e l’ho sempre finita: cosa non scontata, per un pistard. La prima volta, quando alla sera sono andato a letto mi sembrava di pedalare ancora».
A 24 anni ha smesso di correre. Perché così presto?
«Per vari motivi. L’Atala aveva chiuso con la squadra su pista: e io avevo bisogno di uno stipendio. E poi mi faceva imbestialire una certa “mafietta”: alle riunioni, dove si prendevano un po’ di soldi, chiamavano più spesso altri che io battevo regolarmente. Quando è saltata la convocazione ai Mondiali per mettere in squadra un altro al mio posto ho deciso: sono tornato a casa, ho venduto la bici e ho rimesso la tuta da battilamiera. E non ne ho più voluto sapere».
Ed è tornato alla carrozzeria Jasoni.
«Sì. Se mi date la stessa paga io riprendo il mio lavoro, ho detto ai due fratelli. Detto, fatto».
Dopo qualche anno si è trasferito a Padova.
«A Padova, durante la naja, avevo conosciuto Maria Luisa, che poi ho sposato. Mia moglie a Parma non si trovava bene, sentiva troppo la nostalgia dei genitori. Io, con la scusa del ciclismo, ero sempre stato un po’ zingaro: ma lei non riusciva ad ambientarsi. E così le ho proposto di andare a vivere a Padova. Mi sono sempre trovato bene, anche se Parma mi manca molto».
Galeotto fu il ciclismo?
«No, la musica. La adoriamo entrambi. Passiamo mezze giornate ad ascoltare opere, o musica classica. E adesso che nostro nipote Alberto si è iscritto al conservatorio diventiamo matti, quando suona il pianoforte. L’altra nipote, Elena, è nazionale di nuoto sincronizzato: anche lei ci dà tante soddisfazioni».
Segue sempre il ciclismo?
«Certo. La passione resta, sempre».
Mai pensato di fare l’allenatore?
«Per carità. Oggi si sentono tutti commissari tecnici. Uno legge un libro ed è convinto di sapere come si prepara un ragazzo che vuole andare in bici».
Che consiglio darebbe a un giovane ciclista?
«Uno solo: provare la pista. Non perché ero un pistard, ma perché in pista si impara a andare in bici. Si impara il colpo d’occhio, si migliorano l’agilità, la prontezza di riflessi, la velocità delle gambe. Non è un caso che oggi tanti grandi campioni della strada arrivino dalla pista. Una volta qualche stradista pensava che chi correva nei velodromi fosse una “signorina”. Poi veniva in pista e prendeva di quelle botte…».