Sacchi: «Mi ha battuto solo lo stress»

Sandro Piovani

Buon compleanno Arrigo, domani son settanta. Un passaggio importante nella vita di un uomo. E se quest'uomo è uno dei maggiori “responsabili” dei cambiamenti del calcio moderno, ecco che la giornata è ancor più importante. Domani, primo aprile, Arrigo Sacchi da Fusignano compie settant'anni. «Se mi parli di Parma – esordisce Sacchi al telefono (mentre viaggia verso la partita dell'Under 19) – mi si apre il cuore. Mi emoziono. Parma mi è entrata nel cuore per la signorilità, per l'educazione, per la civiltà... Anche per il culto della bellezza. Parma ti fa sentire a tuo agio, sempre. L'ho già detto e lo ripeto: se dovesse venire una commissione europea a testare la civiltà italiana, beh io li porterei a Parma».

Merito dei tanti ricordi forse?

«Devo tanto a Parma. Ci sono state in momenti diversi, con ruoli diversi. E' una città a cui devo tanto e che avrò sempre nel cuore».

E se diciamo Ernesto Ceresini?

«Ceresini è stato un grande personaggio, un uomo perbene, un uomo che amava il calcio. E che per il calcio si era esposto molto, anche economicamente. Un grande, quelle persone delle quali si sente la mancanza nel mondo del calcio. Non solo a Parma».

Ora come vede la rinascita del calcio a Parma?

«Sono tutti parmigiani e persone perbene. Volevo farlo anch'io questo passaggio. Le premesse sono buone e voglio dire loro che si può fare calcio ad alto livello, con le idee e senza buttare via i soldi».

Parliamo della sua carriera.

«La prima tappa da allenatore è stata lunghissima. Venni a Parma che per tutti ero un esordiente ma erano già dodici anni che allenavo. Dalla Seconda categoria col Fusignano quando dovevamo salvarci e invece vincemmo il campionato. Poi in Prima e in Quarta serie ma non avevo il patentino. Poi tre anni al Cesena con due titoli italiani Primavera. Poi in C col Rimini, quinti quando eravamo partiti per salvarci: mi vendettero Zoratto e me ne andai. Poi andai alla Fiorentina con Allodi, sempre nel settore giovanile, allenatore della Primavera. Allodi si dimise e a fine anno me ne andai. Nonostante i Pontello non volessero».

E Allodi la consigliò a Ceresini, giusto?

«Sì e i Pontello ci rimasero male ma da Parma io sarei dovuto tornare alla Fiorentina. Quella che era una sfortuna però diventò una fortuna: incontrammo il Milan in amichevole e due volte in Coppa Italia. Avendo vinto due volte consecutivamente a Milano poi fui chiamato proprio dal Milan».

Ed è iniziata una carriera folgorante.

«Sono rimasto al Milan quattro anni, poi mi sono dimesso. L'idea di smettere l'ho avuta sin da Rimini. Poi a Parma. E poi al Milan».

Come mai?

«Perché ho sempre avuto un grande avversario, che era lo stress. Per la verità nei primi 25-26 anni di carriera è stato un plus-valore. Perché lo gestivo e così mi dava più forza, più energia e più idee. Poi, dopo la finale del Mondiale (1994, Usa) non sono più riuscito a gestirlo. Avevo terminato una sfida. Ovunque andassi si chiedevano “chi è questo?” Solo a Parma mi hanno sempre accolto bene. Dalle altre parti ero accolto con prevenzione».

Che accadde poi?

«Commisi un atto di opportunismo che non fa parte del mio modo di essere: il presidente Matarrese voleva che rimanessi in Nazionale e per me fu una scelta di comodo. Il calcio mi piaceva sempre. Al calcio ho dato la vita, ho dato tutto. Chiedevo tutto dai giocatori ma anch'io ho dato tutto. Ma quell'ossessione mi aveva esaurito. 26 anni in apnea: lo ripeto anche a voi, in confronto Maiorca era un dilettante. Avevo sempre questa ossessione: tradire chi mi stimava e chi mi pagava e i giocatori che mi seguivano».

Cosa provava, cosa sentiva?

«Semplicemente sentivo il bisogno di condurre una vita normale. Ma sbagliai a rimanere in Nazionale. Ero come un fumatore incallito che vuole smettere ma quando vede un mozzicone di sigaretta non sa resistere».

In effetti poi la sua carriera è stata costellata di dimissioni. A Parma ma non solo.

«Si, un po' ovunque. Dalla Nazionale dopo aver perso un Europeo pur giocando meglio di tutti. Con molta sfortuna ed anche per errori miei. Eravamo nel girone delle due finaliste comunque. Poi ho tentato l'esperienza con l'Atletico Madrid: eravamo in alto in classifica ma dopo sei o sette mesi mi son dimesso perché vedevo solo nero. Poi sono stato fermo un po'».

E dopo c'è stato il secondo ritorno a Parma.

«Sì, volevo fare solo il direttore tecnico ma mi chiesero di allenare per sei mesi. Ho resistito tre partite nonostante giocassi in casa mia, con persone che mi volevano bene. Con giocatori perfetti. Mi dimisi e da allora non ho più allenato».

Poi c'è stata la terza volta al Parma.

«Come direttore tecnico. Credo di averlo fatto con buoni risultati. Poi sono andato a Madrid (al Real) ma anche lì mi sono dimesso. Stavolta perché c'era un presidente che voleva fare tutto».

Poi le nazionali italiane giovanili.

«Qui ho rispettato il contratto e credo che anche qui sia stato fatto un buon lavoro».

E adesso ogni tanto scrive.

«Cercando di far capire che il calcio non è solo vittoria. Si può anche perdere ma con dignità. Quando uno dà tutto non si è mai perso. Se non riusciamo a farne dei calciatori è importante farne degli uomini».

I mali del calcio?

«Il protagonismo e il business».

Chiudiamo con un messaggio ai giovani?

«Per me il giocar bene e il merito sono i due valori più importanti in un paese che li ha frequentati poco. Il paradosso: nel calcio spesso si dice basta giocar bene, ora bisogna vincere».