Concari, la medicina come missione
Il dottor Galeazzo Concari dirige l’equipe del reparto di Ortopedia dell’ospedale di Vaio dal primo ottobre dello scorso anno, con il ruolo di primario facente funzione. Dopo il liceo scientifico a Viadana la scelta tra proseguire gli studi o continuare con l’attività dei genitori, artigiani nel settore dell’elettromeccanica. Intraprende la strada della medicina con laurea e specializzazione in Ortopedia all’Ateneo di Parma. A Vaio arriva nel 2007 sotto la guida del professor Enrico Vaienti con il quale cresce professionalmente a Responsabile dell’Unità Semplice di Chirurgia del Ginocchio e nel 2015 con la nomina di referente dell’Unità operativa di Ortopedia e Traumatologia conferitagli dal capo dipartimento chirurgico professor Aldo Guardoli. Lungo il percorso nove missioni in Bangladesh.
Dottor Concari, come è arrivato a questo Paese e a questa esperienza?
«Ero al primo anno di Università quando il professor Rinaldi ci propose l’idea dell’esperienza in questo paese, spiegandoci le cose che c’erano da fare e i rischi a cui potevamo andare incontro. Erano anni difficili per la situazione internazionale non propriamente tranquilla. Tornai a casa e dopo qualche riflessione decisi di partire».
Come è stata quella prima volta?
«Sono partito da Malpensa insieme a miei compagni di studi. Avevo uno zaino leggero sulle spalle con poche cose per me e nella valigia medicine, strumenti, ferri e gessi. Più spazio avevi a disposizione più riuscivi a portare dispositivi utili per la missione. Dopo un viaggio lunghissimo scesi dall’aereo con la preoccupazione di recuperare la valigia perché se sfortunatamente fosse andata persa non si sarebbe potuto fare niente all’ospedale. Fuori dall’aeroporto il caos: clacson che suonavano in continuazione e la ressa di gente che in ogni angolo cercava gli occidentali per chiedere loro l’elemosina. L’ospedale era lontanissimo, ancora otto ore di pullman nel traffico disordinato e il rischioso attraversamento del Gange. Poi l’ospedale dei padri saveriani di Khulna. Davanti al cancello d’ingresso una moltitudine di persone sulla strada in cerca di aiuto: piedi torti, malformazioni, ustioni e bambini, tanti bambini. Si visitava sulla strada e nel fango, più eri veloce più persone potevi aiutare. C’era chi potevi aiutare con una puntura di cortisone e molti che dovevi portare in sala operatoria il giorno dopo. Di fronte a tutto questo ricordo di essermi chiesto più volte “Ma esistono davvero queste cose?”».
Cosa lascia un’esperienza così forte dal punto di vista umano? Cosa porta oggi nel suo lavoro di quelle missioni?
«Dal punto di vista umano mi ha dato davvero tanto, nel cuore porto molte cose. Porto le persone che abbiamo aiutato con la loro riconoscenza, il rispetto, l’affidamento totale al “Boro Doctor”, come usavano chiamarci, e il sorriso che ti regalano nonostante la disperazione della malattia. Porto la disponibilità delle suore di Maria Bambina che ogni mattina ci facevano trovare i nostri indumenti puliti e l’accoglienza del personale bengalese operativo nella struttura. Nel mio ruolo di oggi porto quell'umanità e rispetto imparati là. Rispetto per l’utenza e per il lavoro dei miei colleghi con i quali ho condiviso il Bangladesh e la grande lezione di vita che ci ha regalato».S.G.