Dopo l'ebola, la Sierra Leone risorge grazie a Parma

Luca Pelagatti

Mohamed Kargbo è morto il 7 luglio 2014. Aveva nove anni e insieme a lui se ne sono andati anche il padre Abu e quattro fratellini. Sei ore dopo, però, lui è risorto. Miracolo? Decidete voi, ma ricordate che questa è la Sierra Leone e che, nei giorni dell’epidemia di ebola, anche la Pasqua sembrava dimenticata nel West Africa. Così la storia di Mohamed, vista da qui, è solo una delle tante. Semplicemente il bambino è stato infilato dentro un sacco nero in una buca nella terra rossa in attesa dei moderni monatti. A vegliare quei corpi c’era anche un anziano del villaggio. Fu lui a notare che il sacco aveva sobbalzato. «Si muove, è vivo», ha gridato il vecchio. Se chi doveva interrare i corpi fosse stato puntuale Mohamed, a quel punto, sarebbe stato già coperto di zolle e cloro. Poi dimenticato. Ma i seppellitori erano in ritardo e quando il vecchio aprì il sacco, Mohamed respirava molto piano. Ma respirava: e così fu portato nel centro per l’ebola di Porto Loko. Adesso frequenta la terza elementare e vive con il vecchio che lo ha salvato. E ad un anno esatto dall’aprile 2016, quando l’Organizzazione mondiale della Sanità ha stabilito che l’epidemia è infine debellata, Mohamed cammina scalzo verso la sua scuola. I cartelli con i consigli contro l’Ebola che scolorano al sole feroce neppure li guarda più. Perché in questo paese la morte non è poi che faccia così paura. Semmai è vivere la cosa più difficile.

Lo si capisce appena sbarcati dal volo che dal cuore dell'Europa, quella dei palazzi di vetro, piomba nel profondo dell'Africa. Quella vera, non quella nera. Qui non si viene per i safari, qui non ci sono elefanti e leopardi a scatenare raffiche delle reflex. No, qui ci si viene solo spinti dalla buona volontà. Perché come dice Adriano Cugini, un parmigiano che dagli anni '70 ha dedicato tutti i suoi sforzi per aiutare la Sierra Leone «in questo paese non c'è nulla da vedere. A parte la gente che la abita». Gli stessi volti che ti accerchiano appena metti fuori i piedi dall'aeroporto della capitale. E' l'unico del paese, pieno di presuntuose scritte «international» ma sembra una scalcinata stazione di paese immersa in troppi suoni, clacson e fracasso di vita.

«Benvenuti, ben arrivati», sorride Carlo Di Sopra mentre smista scatoloni, carica un pick up e parla con tutti nello strano gramelot locale. Già a vederlo intuisci tutto: la stretta di mano è ruvida, i vestiti sono quelli di chi vive in una perenne estate sgarbata. In realtà è un missionario saveriano, un religioso, ma qui non c'è tempo per le smancerie degli abiti talari. Lui e i suoi confratelli in questa terra dicono messa ma intanto guidano la jeep, lavorano con le mani, si inventano ogni giorno mille mestieri. Loro hanno messo in gioco la loro vita. La posta è aiutare la vita degli altri. Ma se glielo chiedi, se provi a farli raccontare, sembra che sia cosa normale. E che essere scampati a dieci anni di guerra civile, a tre anni di ebola, alla malaria che martella le ossa e ai cobra che si infilano nelle stanze della missione sia poca cosa. Perché c'è sempre molto da fare. Anzi troppo.

D'altra parte basta scorrere i numeri: questo paese di sette milioni di abitanti ha meno di duecento medici e sta al terzultimo posto nelle classifiche dei paesi più poveri. Ci sono solo due nazioni al mondo messe peggio: e nessuno vorrebbe il primato. La vita media arriva appena a quarant'anni, una donna su venti muore di parto e qui il destino sembra infierire: il numero dei morti per ebola nessuno l'ha mai calcolato con certezza. I dati ufficiali dicono quattromila, quelle ufficiosi oltre diecimila. Il dottor Patrick E. Turay, direttore sanitario dell’ospedale Holy Spirit di Makeni allarga le braccia. «Nel paese non esiste un’anagrafe e, soprattutto nei villaggi più lontani, tantissimi sono finiti di nascosto sotto terra». Morti senza nome sterminati da una pestilenza che pare medievale e di cui non si conoscono neppure le cause: l'Organizzazione Mondiale della Sanità parla di un contagio casuale per colpa di un pipistrello, i soliti complottisti alludono ad una epidemia provocata dagli occidentali senza scrupoli. Ma nei villaggi, sottovoce, c'è chi svela il maleficio: «E' stato un aereo carico di streghe che ha scatenato il male». Superstizioni che non stupiscono: qui Allah e Gesù Cristo devono fare i conti con i culti ancestrali. E nella foresta, di notte, intorno alle capanne, i tamburi evocano ancora il bangbani, il diavolo delle tribù. Solo all'alba il demonio smette di fare paura.

Eppure questa potrebbe essere una terra senza timori: il sottosuolo è pieno di metalli rari e la Sierra Leone è nella top five dei produttori di diamanti. Ma l'unico binario che taglia il paese trasporta fino alla costa quello che esce dalle miniere. Poi il titanio e gli altri tesori attraversano il mare. Inutile dire che indietro non torna mai nulla. E questo vale anche per gli uomini.

«Ci sono più medici di origine sierraleonese nei dintorni di Chicago che nell'intero nostro paese», spiega Patrick E. Turay. Il risultato è che settantaquattro bambini su mille non arrivano al primo compleanno. Ci sarebbe da maledire il destino. Ma questa è l'Africa: vita e morte camminano fianco a fianco. Proprio come gli studenti dell'Unimak, l'Università di Makeni. L'aula magna è un dono parmigiano, così come di benefattori di casa nostra sono i nomi sulle pareti colorate delle aule. Ma oggi si fa festa per un altro motivo. Tra poco verranno consegnate le lauree a quelli che, lo ripete monsignor Natalio Paganelli, vescovo di Makeni, rappresentano «il futuro del paese». Dopo tanti lutti parlare di domani sembra già un miracolo. Ma poi la vera magia è vedere questi giovani scattarsi i selfie come i loro coetanei di ogni altra parte del mondo. L'università è cattolica ma molti studenti sono musulmani, le ragazze portano il velo in testa ma tutte hanno scarpe con tacchi vertiginosi e scollature profonde sotto la divisa stirata di fresco. Almeno l'odio cieco in nome di un dio da queste parti non ha mai attecchito. Te ne rendi conto quando con i saveriani e i rappresentanti dell'associazione parmigiana «Amici della Sierra Leone» scendi dalla jeep, dopo ore di sterrato, davanti alla nuova scuola secondaria di Alikalia. I bambini fanno la coda per entrare nelle foto, i capi tribù atteggiano il volto a composto rigore. Ma quando il vescovo inizia il Padre Nostro in inglese tutti ripetono in coro la preghiera. Anche i musulmani che poi stringono la mano agli amici parmigiani arrivati fino a quella che sembra l'ultima collina per dare una speranza ai loro figli. «Amen» in questa fetta d'Africa si può tradurre semplicemente con «viviamo in pace». E cosi sia.

Masiaka, Jiffin, Lunsar, Makeni: i nomi dei paesi dove la solidarietà di casa nostra è tornata a portare un aiuto sono tanti. Ma questi nomi nulla possono dire a chi spesso già fatica a capire dove stia la Sierra Leone. Per quasi tutti noi è il nome comune di un paese poco speciale dove si muore. Di virus, di diamanti e di machete. Ma comunque si muore. Ma non sempre è vero: e le storie di rinascita superano quasi quelle di disperazione. Nell'istituto per sordomuti gestito da una battagliera suora irlandese gli apparecchi acustici li costruisce, a mano uno per uno, un ragazzo che ha perso una gamba durante la guerra civile. Dicono che sia un maestro: lui si limita a dire che quello è il suo modo di correre. Ma ancora di più vale la storia di un giovane contagiato dall'ebola mentre faceva il maestro. I medici dopo l'ultima visita sussurrarono l'estrema sentenza: «Non c'è niente da fare. Morirà». Lui sentiva e capiva tutto ma il virus l'aveva paralizzato, gli aveva tolto la voce. Nonostante questo riuscì a spostare di poco un braccio e quel movimento gli salvò la vita. Fu idratato, messo in terapia intensiva. Dopo poche settimane uscì camminando dall'ospedale. Adesso però non fa più il maestro ma studia da infermiere alla scuola di Mabesseneh. «Io mi sono salvato - dice - e voglio aiutare altri a farlo». Forse anche questa è solo una storia come tante. Ma in Africa tutto è diverso. E forse i miracoli sono fatti così.