Fanelli: «Fine vita: una legge univoca non si può fare»

Luca Molinari

«Sono contrario a una legge sul fine vita che faccia di tutta l’erba un fascio». A parlare è l’esperto in terapia del dolore Guido Fanelli, ordinario del nostro Ateneo, direttore della struttura complessa 2ª Anestesia, rianimazione e terapia antalgica del Maggiore e coautore della legge del 2010 sull’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore.

Il caso di dj Fabo - il giovane rimasto cieco e tetraplegico dopo un incidente, che si è sottoposto al suicidio assistito in Svizzera – ha alimentato un grande dibattito sul tema. Secondo Fanelli ci sono troppe sfaccettature per prevedere una legge univoca su questa delicata materia.

«Spesso le notizie che riguardano l’eutanasia creano confusione – dichiara - Occorre fare una distinzione quando si parla di suicidio assistito come il caso di dj Fabo, differente dalla sospensione delle cure, richiesta dai famigliari di Eluana Englaro, dall’accanimento terapeutico e dall’eutanasia, come l’iniezione voluta da Piergiorgio Welby».

Nella marea della soggettività dei casi clinici, «l’oggettività che è insita nella elaborazione di una legge che ne disciplina la materia – rimarca Fanelli - è poco applicabile, nonostante la dignità umana sia un bene supremo ed imprescindibile, sia in vita che in morte». Il tema del fine vita è una questione delicatissima. «L’irreversibilità delle patologie è l’unica cosa che unisce il caso di Dj Fabo con quello di Eluana Englaro e Piergiorgio Welby – dichiara Fanelli – I singoli casi clinici in realtà sono molto diversi tra loro. Il primo passo è lavorare sul testamento biologico». Secondo Fanelli bisogna partire dalla classificazione clinica dei singoli casi e ragionare sul testamento biologico, prima che dell’eutanasia.

«In primis bisogna creare un recinto tecnico legato alla condizione clinica dei pazienti – spiega – e quindi ragionare sul testamento biologico. Solo in un secondo momento si potrà parlare di eutanasia e arrivare a una legge in materia».

Fanelli ha effettuato numerose audizioni in Senato sul fine vita. «La questione di fondo è come unire casi diversi con una legge uguale per tutti – osserva – I casi clinici infatti sono molto differenti tra loro. Una delle differenze più importanti è legata al fatto che un paziente sia o meno cosciente. Una persona in coma vegetativo è diversa da una che esprime sentimenti. Per questo ritengo fondamentale che si preveda un recinto tecnico legato alla condizione clinica dei pazienti».

Intanto, dopo l’autodenuncia di martedì davanti ai carabinieri della Compagnia Duomo di Milano - nella quale l’esponente dei Radicali ha raccontato di aver accompagnato Fabiano Antoniani a morire per suicidio assistito in una clinica in Svizzera, svelando che sta aiutando anche altre persone - Marco Cappato è stato iscritto ieri nel registro degli indagati dal pm Siciliano, che coordina il pool «ambiente, salute e lavoro», per il reato previsto dall’articolo 580 del codice penale, ossia «istigazione o aiuto al suicidio», e che prevede pene che vanno dai 5 ai 12 anni di carcere. In particolare, a Cappato, indagato a seguito del suo verbale di spontanee dichiarazioni, viene contestata la parte del reato in cui si stabilisce che deve essere punito chi «agevola in qualsiasi modo l’esecuzione» del suicidio.