L'esempio di Londra contro il terrorismo

Francesco Bandini

«Business as usual», si lavora come sempre. Così recitava un cartello che il primo ministro britannico Winston Churchill raccontò al grande inviato Indro Montanelli di avere visto appeso sulla porta di un negozio di barbiere, nella Londra appena devastata dai bombardamenti tedeschi della Seconda guerra mondiale. E già allora, a gestire quella bottega di cui Churchill fu così fiero, non era esattamente il prototipo del cittadino anglosassone, ma un tale di nome Pasquale Esposito, emigrato napoletano.

Oggi la capitale del Regno Unito non è stata bombardata materialmente, ma psicologicamente sì: i morti e i feriti non si contano a migliaia, ma quelle poche decine di persone coinvolte non sono meno importanti delle vittime di allora e soprattutto provengono da tutto il mondo (tredici le nazionalità di chi si trovava a camminare sul ponte di Westminster ed è stato falciato dal terrorista a bordo del suv), a testimonianza di come un attacco a Londra sia in realtà un attacco alla civiltà umana; il simbolo della democrazia occidentale, ovvero il parlamento rappresentativo più antico della storia, è stato preso di mira per ciò che da secoli rappresenta e ha saputo ispirare; la stessa metropoli più multietnica del mondo è tornata ad essere colpita anche per la sua natura tollerante e accogliente, così accogliente da essersi scelta un sindaco di origini pachistane e di fede musulmana.

È proprio questa città democratica, pragmatica, multietnica e tollerante che già all’indomani dell’azione terroristica ha saputo e voluto rimettersi in piedi. La gente è tornata regolarmente alle proprie occupazioni, la metropolitana si è rimessa in funzione, la Camera dei comuni si è riunita osservando un minuto di silenzio ma poi subito dopo discutendo il normale ordine del giorno già programmato. «Oggi la gente è tornata al lavoro, le strade sono piene, tutto ricomincia. È con azioni di normalità che possiamo rispondere al terrorismo», ha detto il primo ministro Theresa May. Insomma, «business as usual». Quel cartello che oltre settant’anni fa fu affisso da un emigrato italiano, oggi idealmente – oltre ai britannici – lo inchiodano sulle porte dei rispettivi luoghi di lavoro anche i milioni di emigrati (di prima, seconda o terza generazione) che rispondono alla sfida del terrore con l’arma della normalità. Anche loro hanno assimilato quella flemma tipicamente british di fronte alle disgrazie, quel «keep calm and carry on» (mantenere la calma e andare avanti) che ebbe le proprie origini proprio nel momento drammatico in cui la Gran Bretagna fu sotto attacco durante il secondo conflitto mondiale.

Ma andare avanti a testa bassa anche nei momenti più difficili non significa accettare di «convivere con la paura»: una frase, quest’ultima, che si sente spesso ripetere dopo ogni azione terroristica, ma che dà un po’ troppo l’idea della rassegnazione all’ineluttabilità di certi atti devastanti e meschini. Più che la capacità di convivere con la paura, l’esempio che arriva da Londra è la consapevolezza della solidità dei propri valori e, soprattutto, della forza di una comunità che sa che la follia del terrore un giorno avrà fine, mentre le conquiste della nostra civiltà sono un bastione che ci proteggerà sempre da ogni barbarie.