La ripresa c'è. Ma il debito pubblico non cala...
Sarebbe assurdo negare che l'economia italiana gode di migliore salute rispetto a qualche tempo fa. Lo certificano ormai quasi quotidianamente i dati di Fmi, Ocse, Bankitalia, Confindustria, Istat e perfino le agenzie di rating, mai tenere quando si tratta di soppesare i numeri del Belpaese. Cresce il Pil, la cui accelerazione all'1,5% annuo è stata confermata appena venerdì, salgono gli occupati a oltre 23 milioni come non si contavano da prima della famigerata “crisi”, mentre gli ordinativi e il fatturato dell'industria sono tonici e gli indicatori che misurano la fiducia fanno i fuochi d'artificio.
Eppure, non per il gusto di fare gli «incontentabili» come in un vecchio carosello, qualche puntino sulle i forse occorre metterlo, perché se è vero che la ripresa non è più una chimera è inconfutabile che diversi nodi non sono stati risolti. Concentriamoci su tre fattori: il confronto con gli altri Paesi, lo spaventoso debito pubblico, le politiche per favorire il lavoro e la ripresa.
Dunque, gli altri. Nel secondo trimestre dell'anno il nostro +1,5% si confronta con un ben più solido +2,2% dell'Eurozona mentre la riduzione del rapporto debito/Pil dello 0,1% (al 134,7%!) fa sorridere rispetto ai 4 punti percentuali ridotti dai primi della classe, ovviamente tedeschi, scesi al 66,9%, ma perfino i presunti «Pigs» come Spagna (+0,8) e Grecia (+0,3) hanno fatto meglio. Corriamo, sì, ma il passo non è da bersaglieri, ed è ovvio che se gli altri vanno più forte noi andiamo indietro. Stiamo soprattutto beneficiando della situazione positiva dell'Europa, più stabile politicamente sull'asse Macron-Merkel (la Cancelliera è favoritissima nell'imminente voto tedesco), al riparo dalle tensioni politiche spostatesi drammaticamente nel Pacifico e con un euro robusto ma non al punto di castigare l'export. Senza contare che l'ombrello della Bce resta aperto (e dovremmo capire che la ripresa non è ancora strutturale se la politica monetaria del quantitative easing resta la regola).
Proprio l'Italia - passiamo al secondo punto - molto esposta a qualsiasi choc esterno per la mole del proprio debito pubblico, è in posizione delicata. Perché la montagna continua a crescere: al 30 giugno i miliardi sul groppone erano 2281,4 (oltre 60 più che a inizio anno, una trentina in più rispetto all'anno prima) ma sembrano essere pochi quelli che se ne occupano o mettono in risalto - come hanno fatto recentemente Mario Seminerio e Pietro Saccò - che se il Pil reale cresce, è quello nominale (depurato in sostanza dagli effetti dell'inflazione) che si utilizza per misurare il rapporto tra debito pubblico e crescita. E purtroppo il trend in questo caso non è confortante e si faticherà a centrare la riduzione inclusa nel Def dello 0,1%. Morale: il debito pubblico continua a crescere, ma la politica nasconde con disinvoltura la testa sotto la sabbia. Un dato raggelante: in sette anni - certifica l'Istituto Bruno Leoni - il debito pubblico pro capite è passato da 30mila a 37mila euro. Neonati inclusi.
E arriviamo al terzo punto, logica conseguenza: che fare? La manovra che c'è dietro l'angolo sarà come troppo spesso accade pre-elettorale, e quindi il pericolo di interventi all'acqua di rose è concreto: bisogna assolutamente restare agganciati alla ripresa in atto, favorendo investimenti e occupazione (perché ricordiamoci che i senza lavoro restano a un drammatico 11,3%) ma al tempo stesso va ridotto il debito pubblico. Un percorso maledettamente difficile.
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