Papà Fred si racconta: tra il dolore infinito e la forza dell'amore
Laura Frugoni
«Voglio vedere mio figlio, voglio parlare con lui, chiedergli perché... So che anche lui ha chiesto di me dal carcere. Voglio rivederlo, voglio abbracciarlo...».
La voce di Fred Nyantakyi è un filo sottilissimo, che però resiste. Non si spezza quasi mai. Parlano i suoi occhi, soprattutto: inchiodati sul pavimento oppure persi in un altrove confuso e popolato di chissà quali incubi. Quando finalmente li incontri, scorgi l'abisso di un dolore che non trova parole. Occhi buoni: di un uomo che non sa odiare.
L'abbiamo aspettato, ieri pomeriggio, nel salotto di Emanuel Yeboah, il presidente della Comunità ghanese: uno dei tanti, tantissimi che cerca come può di stare vicino a quello che è rimasto di questa famiglia devastata. Quando Fred entra nella stanza, maglietta rossa e calzoncini corti, ti tende la mano e accenna un sorriso mesto. Prima di venire da Emanuel, è stato dal suo medico per una breve visita di controllo. Siede accanto al cugino Cosmos che lo ha accompagnato, c'è anche un amico appena arrivato dall'Inghilterra: per un lungo istante nessuno osa spezzare il silenzio, solo il ronzio del ventilatore che non riesce a spostare quest'aria immobile, questa cappa di angoscia che opprime.
Come sta, Fred? «Sono rimasto in ospedale due giorni. Venerdì sera mi ero sentito male. Dolori al petto, mi girava la testa... Ho fatto i controlli, non c'è niente che non va. Tutto bene». Usa un italiano semplice e scarno, come chi non ne conosce le mille sfumature. Annuisce Cosmos, una specie di angelo custode che gli sta sempre al fianco e lo ospita dopo che l'appartamento di via San Leonardo è diventato la casa del massacro: «Venerdì ci ha fatto spaventare. Stava male, vomitava...».
Ora va meglio. «Sto bene», assicura Fred e come l'altro giorno alla fiaccolata aveva sbalordito con quel suo «chiedo scusa alla città», anche adesso si preoccupa in qualche modo di mandare un pensiero riconoscente a tutti quelli che gli sono vicino: «Tante, tante persone. I ghanesi ma anche gli italiani mi fanno sentire il loro calore. I miei ex colleghi di San Polo di Torrile: tutti mi hanno mandato messaggi».
Prima del tormento delle domande, lasciamo che sia lui a raccontare.
«Io ero andato a Londra per lavorare, sì. Ma il 16, 17 e 18 giugno ero tornato a Parma. In casa era tutto normale. Mia moglie il 10 giugno era partita per il Ghana, era tornata il 7 luglio, mio figlio grande era andato a prenderla in aeroporto. Sabato l'avevo chiamata da Londra: “E' tutto ok”. Domenica avevo chiamato ancora: “Sei riuscita ad andare in chiesa?”. “No, sono stanca”, mi aveva risposto». Fred dice «era tutto a posto»: mancavano due giorni alla fine del mondo.
«E' finito tutto: non ho più una moglie, non ho più una figlia - fa una pausa impercettibile - E neanche un figlio».
Il pensiero vola alla piccola Maddy e il terreno dei ricordi diventa più friabile: «E' stato un bel viaggio, per loro, giù in Africa. Mia figlia non era mai stata in Ghana, era la prima volta per lei: avevamo paura che non si trovasse bene e invece le è piaciuto molto. La gente non capiva come una bambina nata e cresciuta in Europa riuscisse a capire il dialetto tribale...».
Sorride pensando alla sua Maddy che stupisce i nonni e i parenti destreggiandosi con quelle parole oscure. Quando parla di lei usa il presente. Di colpo il sorriso si spegne: Fred piange. Lacrime silenziose, che contagiano tutti gli altri nella stanza. Si asciuga il viso con un fazzoletto e riavvolge quel filo sottile.
Quando ha sentito Solomon l'ultima volta? «Lunedì, per il mio compleanno. Mi ha mandato un messaggio per farmi gli auguri. Dove sei? mi ha chiesto. “Sono a casa, e tu?” “Anch'io sono a casa”. Sì, avevo visto in passato i problemi di mio figlio. La depressione: ma pensavo fossero problemi piccoli, non così grandi. Si era un po' chiuso. Quando eravamo tutti in sala lui non veniva, si isolava. Quando lo chiamavo al telefono non rispondeva. Ma negli ultimi tempi stava meglio, l'avevo visto bene...».
La depressione: se n'è parlato tanto. Da dove arrivava, com'era cominciata? «E' stato per il calcio: il suo sogno era sfumato. Dopo che il Parma era fallito non ha più trovato una squadra che gli piaceva». Fred racconta di un'altalena di tentativi andati a vuoto: di un ragazzo («tipo un procuratore») che gli diceva «ti trovo una squadra in Inghilterra, ma poi hanno chiuso il calcio mercato». Sempre quel ragazzo in alternativa gli aveva scovato un ingaggio a Malta. «Solomon pensava di andare a giocare in una squadra di serie A, invece quando è arrivato ha scoperto che era di serie B. “Questa squadra non mi piace, papà”. Io gli ho comprato il biglietto dell'aereo ed è tornato a Parma. Poi c'è stata l'Imolese, ma non si è trovato bene neanche lì...».
Nella casa sprangata dai sigilli di via San Leonardo c'è ancora il modulo per l'iscrizione all'Ipsia. Fred dice che erano andati a prenderlo insieme: a settembre Solomon avrebbe avuto un banco. Sfumati i sogni di gloria pallonara, il padre aveva cercato di convincerlo a costruirsi un futuro diverso, sicuramente meno scintillante ma onesto e concreto. «Trovarsi un lavoro senza qualcosa in mano è difficile - riflette Fred ad alta voce - aveva fatto il corso da metalmeccanico da Forma Futuro. Tre mesi: aveva finito a giugno».
Ci era andato volentieri? «L'aveva scelto lui», risponde Fred.
Era mai stato violento, Solomon? «Con chi? Con noi? No, mai. Maddy l'andava a prendere quando andava a fare i compiti nel laboratorio di via San Leonardo, o l'accompagnava a comprare il gelato al Penny. Sua madre? Se qualcosa non andava in casa, magari gli diceva vai a stendere i tuoi vestiti, lava i piatti. Ma finiva lì».
Si è parlato di droga, di cattive compagnie: ha avuto qualche sentore del lato più buio di suo figlio, Fred? «In casa non faceva vedere niente», scrolla la testa. Il nostro tempo è quasi finito, ma quest'uomo è gentile fino all'ultimo istante: non si alza neppure dal divano. Dice solo: «Domani c'è l'autopsia, ci hanno consigliato di prendere un avvocato... lo dobbiamo incontrare».
Il futuro è una montagna da scalare: nella casa di via San Leonardo non tornerà mai più. Londra ormai è un porto archiviato. «C'è mio figlio Raymond, devo stargli vicino. Resterò qui. In quale altro posto potrei andare?».