Graham Vick: «Pubblico in piedi? E' democrazia»

Giuseppe Martini

Ha una stretta di mano forte e sincera e una simpatia quasi timida, da vicino di pianerottolo: invece è nientemeno che Graham Vick, fondatore e direttore artistico della Birmingham Opera Company, e soprattutto uno dei più grandi registi d’opera al mondo (suo il celebre «Macbeth del cubo» alla Scala, 1997, con Muti e Bruson). Al Festival Verdi dal 30 settembre nel Teatro Farnese mette in scena «Stiffelio», 1850, una delle opere verdiane non ancora entrate nell’orecchio degli appassionati, anche perché riesumata da pochi anni dopo l’oblìo che le aveva imposto lo stesso Verdi rifacendola in «Aroldo». Storia borghese di tradimenti: un pastore protestante incline a predicare il perdono scopre che, mentre era in giro a evangelizzare, la moglie se l’è spassata con un amico, finché dopo accuse, duelli e soppressione fisica dell’amante, lui prima minaccia il divorzio poi a sorpresa la perdona durante l’omelia in chiesa. «È un titolo che ho scelto io di fare qui al Festival, perché è un’opera molto sottovalutata». Ora siamo seduti al Caffè e Vick picchia il tavolino con passione a ogni frase. «È musicalmente fortissima e sperimentale, un momento molto particolare nella carriera di Verdi. È un’opera che mi prende molto. È sfidante».

Chi è questo Stiffelio?
«È un uomo che mette sé fra Dio e il popolo, con orgoglio e presunzione. E già questo è la voce di Verdi contro l’autorità ecclesiastica come potere che controlla. Poi c’è sua moglie, Lina, un’anticipazione di Violetta: è la donna caduta, la donna che ha peccato, e il peccato è il soggetto della storia. Ma Stiffelio, che sa perdonare tutti, non perdona la moglie: e qui sta la presunzione di quest’uomo che grazie all’umiltà si è conquistato il successo, ma poi si dimostra intollerante e orgoglioso».

C’è da dire che la morale religiosa serve a Stiffelio sì come strumento di potere, ma anche per risolvere alla fine la propria lacerazione.
«Solo perché l’amante è stato soppresso! Ma nel momento culminante del perdono, in effetti Stiffelio che fa? Legge una frase del Vangelo, la vicenda dell’adultera, però la partitura non ci dice che lo fa perché ha capito il proprio maschilismo. No, è un altro gesto di orgoglio. Che diritto ha di concedere il perdono a Lina davanti a tutti? Tutto questo è tremendo. È una forma eccezionale di egoismo maschile riflesso nella società patriarcale ecclesiastica».

Però salva l’apparenza nei confronti del popolo.
«Ma il popolo in quest’opera non esiste».

Ci sono comunque i fedeli che lo rappresentano.
«Diciamo che ci sono momenti pubblici durante i quali Stiffelio si mostra orgoglioso. Ma all’ultimo passo, davanti a tutti, non riesce a far altro che a ergersi al livello di Cristo, il solo che può perdonare. È salva l’apparenza, sì, la borghesia può dormire tranquilla. A Raffaele è addossata ogni colpa, ma anche Lina ha tradito, nonostante dica che è stata trascinata. E allora Stankar risolve tutto ammazzando l’amante della figlia. Stankar e Lina hanno segreti in comune. In «Stiffelio» domina la reticenza. È un aspetto fondamentale».

Ecco, qual è il punto chiave di quest’opera per lei?
«Ahhh… il momento che mi dà brividi è nel duetto del primo atto, quando Stiffelio dice a Lina che non perdonerebbe il tradimento, che ognuno ha dentro di sé un mistero. I versi sono bellissimi: «Ah no, il perdono è facile / al core non ferito; / ma occulto sta nell’anime / tesoro indefinito, / che nulla mano infrangere / impunemente può». Che minaccia! Non male per essere un uomo che predica la salvezza universale. Questi versi ogni volta mi sorprendono. E qui secondo me nasce l’idea di «Otello» che Verdi riprenderà anni dopo».

In effetti «Stiffelio» infrange molti schemi strutturali dell’opera di mezzo Ottocento.
«Sì, Verdi ha tentato qui esperimenti che porterà a compimento nelle ultime opere. Ci sono solo pochi pezzi di struttura convenzionale, e Stiffelio non ha un’aria propria. La vocalità è ricca di declamazioni e transizioni. Una sfida, un soggetto scomodo per un pubblico borghese. Forse anche per questo non è stato un successo».

Quindi un’opera che si presta a rilettura contemporanee…
«Ecco perché mi ha attirato! È contemporanea, come per Verdi alla sua epoca. Il pubblico non lo accettò».

Secondo Verdi l’insuccesso fu per via dei costumi troppo grigi.
«Ecco, invece al Farnese non avremo costumi grigi. Saranno più colorati».

Appunto, come sarà l’allestimento che vedremo al Festival Verdi?
«Non amo parlare delle mie regie, e poi ora sono ancora immerso nel lavoro, quindi non so ancora dove arriverò nel percorso di interpretazione. So che il mio scopo è trovare dove quest’opera parla di noi, e questo è il bello e il privilegio di chi fa il mio mestiere. E lo devo usare con responsabilità».

Però una cosa si sa: il pubblico in piedi. Possiamo spiegarla bene? Altrimenti uno pensa sia solo un capriccio registico.
«L’idea è nata semplicemente come mezzo per coinvolgere il pubblico, ed è la prima volta che si fa in Italia. Spesso in teatro sento che manca elettricità fra palcoscenico e sala: si sta seduti, si giudica, ci si distrae. L’idea di lasciare il pubblico libero di muoversi è proprio dovuta alla volontà di coinvolgerlo in ciò che accade sul palcoscenico, di fargli scegliere di volta in volta il punto di vista di un personaggio, in modo da stabilire un rapporto vivo con la vicenda. In questo modo per ogni persona del pubblico la stessa opera sarà un’opera diversa, così come in un’opera d’arte non c’è un solo significato. Ecco, per me è un tentativo di creare un piano democratico: ogni spettatore uguale all’altro, nelle stesse condizioni, senza privilegi, e sceglie come porsi nei confronti dell’opera».

Come prima conseguenza, viene da dire che così il pubblico diventa a sua volta anche parte dello spettacolo.
«Sì, assolutamente! Anche se non si tratta di attori o figuranti, non sappiamo come si muoverà ciascun spettatore, come dividerà lo spazio con gli altri, come ognuno troverà una propria strada. Né io voglio decidere a priori che ruolo simbolico avrà nello spettacolo. È un esperimento, un’opportunità, un modo per rinfrescare l’impatto con il teatro d’opera in un mondo di percezioni che sta cambiando velocemente».

Il Teatro Farnese che ruolo gioca in tutto questo?
«Non è un teatro ottocentesco convenzionale, spazi che sento sempre più distanti per una rappresentazione teatrale che non sia – come dire? – museale. Ha una sua storia consumata, è stato distrutto e ricostruito, e mi stimola perché è molto attraente e distraente, perciò la sfida per me è rendere l’opera più interessante delo spazio che la accoglie. Ho accettato questa sfida e sta a voi scoprire che succederà».