I volti di Indianapolis visti da una parmigiana

La nostra collaboratrice Martina Alfieri ci manda questo racconto della sua esperienza negli Usa, a Indianapolis. Tra sogno americano, culto del lavoro, auto da corsa e il confronto con un mondo tutto da scoprire. Anche negli aspetti negativi.

Sono partita da Parma ormai un mese fa. Il mio ragazzo scrive la tesi di laurea mentre svolge un tirocinio estivo alla Dallara, qui a Indianapolis; mentre io cerco di imparare le basi della comunicazione pubblicitaria e di migliorare l’inglese in un’agenzia di marketing. Indianapolis, nel bene e nel male, incarna tutti gli stereotipi che riguardano gli Stati Uniti. Ovunque entusiasmo e voglia di fare, efficienza e piacere per la vita. Indiana, a state that works è il mantra scelto dallo stato: uno stato che lavora, che funziona. Qui si respira il sogno americano realizzabile, spesso realizzato. Un esempio tra i tanti, i nostri padroni di casa. Zuni, figlio di immigrati messicani, si è trasferito a Indianapolis per amore quattro anni fa. Ha fatto il cameriere per potersi permettere la scuola da infermiere. Ora lavora in una clinica privata dove guadagna bene, lavora tre giorni a settimana e può godersi la sua famiglia. Sua moglie, Kylie, fa la giornalista, conduce il tg del mattino della principale tv dell’Indiana. Sono poco più che trentenni, con un figlio di tre anni e un altro in arrivo. Stiamo nella loro casetta semi indipendente, come quelle che si vedono nei film: vialetto, portico, e giardino sul retro con immancabile barbecue. Quando cammini per il quartiere, tutti ti salutano. Abbiamo trovato la stessa apertura e disponibilità nelle aziende che ci ospitano, la stessa sensazione di benessere. Qui, ogni porta sembra spalancarsi di fronte ai giovani volenterosi. Il ragazzo a capo della comunicazione nella mia agenzia ha 22 anni; la responsabile del personale 24; il vice direttore 33. Da loro provo ad imparare come si scrive un comunicato stampa in inglese e ad usare il linguaggio giornalistico AP – Associated Press – style, aiuto con le ricerche di mercato. I loro racconti mi hanno aperto gli occhi sull’altra faccia della metropoli, invisibile a chi, come me, vive solo il Wholesale District, lo scintillante cuore degli affari, della vita mondana e del buon cibo. Sono grandi mangiatori di carne gli hoosiers, gli abitanti dell’Indiana e sono tantissime le steakhouse che servono bistecche. Concerti e manifestazioni sportive animano la città, soprattutto d’estate. Aiutano a dimenticarsi dei senzatetto e degli ubriachi abbandonati sui marciapiedi, primo segno di una miseria che sfianca una parte della periferia.

«Lo avevo chiamato da poco, dovevamo vederci più tardi. Stava giocando alla play-station quando sono entrati. Lo hanno ammazzato in pieno giorno», dice Benjamin, che in quella primissima periferia ci è cresciuto. Ha 26 anni e lavora nell’agenzia di marketing. Mi indica sul cellulare la strada in cui è accaduto. Nove minuti d’auto da noi, circa due miglia ad est dell’ombelico di Indianapolis, la piazza di Monument Circle. Diversi suoi amici sono stati uccisi, lui stesso una mattina si è svegliato al suono dei proiettili contro la porta di casa, e ha deciso di andarsene.

Ma è la vita della metropoli, mi spiega. Se cammino in centro, non devo avere paura. Sono molte le controversie di questa città, di questa nazione, dove ogni cosa è possibile, ma non per tutti. Affascina vedere i fuochi d’artificio, la gente ad occhi chiusi e con la mano sul cuore durante l’inno americano il 4 di luglio. E ugualmente mi stupisce essere l’unica bianca ad usare l’autobus. «Sarà perché le persone di colore non possono permettersi l’auto», mi hanno risposto candidamente. Frenata dai residui di un secolare e radicato razzismo ma sempre più aperta alle novità e al cambiamento, questa città mostra l’America più vera.

Martina Alfieri