L'antico rito contadino delle zucche, Halloween o «vgillja di sant»?

Lorenzo Sartorio

E’ già da alcune settimane che nei negozi e nei supermercati è apparsa tutta quella mercanzia molto singolare ed in verità in po' macabra che da anni caratterizza la notte del 31 ottobre, dai nostri vecchi chiamata «Vgillja di Sant» ma che ormai è divenuta, in versione globalizzante, la notte di Halloween dove bambini, ragazzi e non più giovanissimi (sia uomini che donne) hanno il vezzo di travestirsi da mostri, zombi e streghe interpretando figure spettrali che, francamente, fanno a pugni con il buon gusto. Ma anche questa è diventata una moda e, come tale, ne va preso atto, anche se è bene fare sapere ai giovani ed ai giovanissimi che questa notte, così come la si concepisce ora, non fa parte delle tradizioni dei loro vecchi che erano di tutt’altro tenore.

L’unica cosa in comune, tra passato e presente, della «Notte dei Santi» è la cara- vecchia zucca padana che non ha proprio nulla da spartire con quella di Halloween. Sull’argomento svolse studi e ricerche l’indimenticato etnologo Gilberto Oneto che, su «Quaderni Padani», riportò la antiche tradizioni delle «lümere» padane. La tradizione, di origine celtica, delle «lümere» nella notte del 31 ottobre era fortemente radicata in tutta la Padania ed anche dalle nostre parti fino agli inizi degli anni cinquanta. Quindi, la zucca intagliata e scolpita a forma di testa di morto con all’interno una candela, fa parte del nostro bagaglio culturale che nel nord Europa ed anche negli Stati Uniti ha preso talmente piede al punto di aver coniato la leggenda di Jak o Lantern, un balordo che, nella notte di Ognissanti, riuscì ad ingannare persino Belzebù. Infatti, quando alla sua morte venne rifiutato sia in paradiso (a causa della sua vita dissoluta), sia all’inferno (poiché aveva ingannato il demonio), Satana, gli porse un carbone ardente che proveniva dalle fiamme eterne. Con l’intento di illuminare il proprio cammino e non fare spegnere quel tizzone, Jak, lo mise dentro una rapa che stava mangiando. Da allora, il fabbro irlandese, fu condannato a vagare nell’oscurità con la sua lanterna divenendo, da allora, il simbolo delle anime dannate e quindi della notte di Halloween I nostri nonni, nella magica notte del 31 ottobre, avevano l’usanza delle «lümere», ossia zucche svuotate sulla cui corteccia venivano incisi occhi, naso e bocca. Una candela, all’interno della zucca, aveva poi il compito di illuminarla rendendola ancor più spettrale.

Questi spauracchi venivano posti accanto ai lavatoi, nei crocicchi delle strade, nei pressi di chiese e cimiteri, negli angoli bui dei borghi per spaventare donne e bambini, ma la loro funzione principale era quella di illuminare la strada delle anime facendo loro ritrovare il cammino da un mondo all’altro. Altre versioni di  «lümere» erano issate sulle piante, sui pali e sui bastoni. Era pure una consolidata tradizione, in modo particolare nella nostra montagna, sempre la Notte dei Santi, realizzare graziose composizioni da deporre il 2 novembre sulle tombe dei defunti. Le composizioni erano fatte con «petlénghe», le bacche della rosa canina («ròza salvàdga»), che abbellivano le siepi settembrine e ottobrine con il loro colore rosso e che, con le prime giornate autunnali ed i primi velari di nebbia, facevano pensare al Natale. I bambini, invece, conservavano le  «petlénghe» per fare gli occhi, il naso e la bocca ai pupazzi di neve, mentre altri le utilizzavano nel presepe deponendole tra il muschio. I nonni, nelle lunghe veglie invernali nelle stalle, le usavano per comporre le bambole fatte con gli «scartòc' äd melgòn» da donare alle nipotine per Santa Lucia o per Natale. Le antiche filastrocche popolari, alla «petlténga», hanno dedicato alcune simpatiche strofette: «Petlénga petlénga chi ce l'ha se la tenga, vùnna par mi, l'ältra par ti e l'ältra àncora par me marì», «Petlénga petlénghen'na par colorär l'invèron a setémbor at mett in cantén'na e in znär at' mett in t'al granär», «Petlénga äd colén'na l'invèron al se avze'na, petlénga äd montagna l'invèron l'è in t la cavàgna», «Quand la petlénga la dventa rossa i fònz i cascon in t’ la polenta».


Un'altra tradizione molto diffusa dalle nostre parti voleva che il «rezdór», proprio in prossimità della ricorrenza dei Morti e dei Santi, fosse lui a fare il ripieno per le spongate e cioè quell’aulente amalgama di noci tritate, canditi, uva sultanina, spezie e tanto miele che doveva rimanere in «fusione» circa un mese e mezzo. Alcuni sostengono che il ripieno della spongata dovesse «maturare» quaranta giorni per divenire particolarmente gustoso amalgamandosi bene. Alla «rezdóra» spettava poi il compito di preparare, nei nove giorni che precedevano il Natale, i dischi di pasta frolla e quindi procedere alla realizzazione delle spongate che venivano fatte cuocere nei forni a legna. Infine, incipriate di zucchero a velo, venivano messe a dimora nella dispensa in attesa delle feste natalizie. Un'altra antica usanza contadina, di pretta marca muliebre, era la confezione della mostarda che doveva accompagnare i lessi del pranzo di Natale (manzo, cappone, gallina, testina, cotechino e zampone). Le «rezdóre», proprio in occasione della ricorrenza dei Morti e dei Santi, raccoglievano le perine verdi (i «per nigrèn» o i «per moròn») - quelle che non maturano mai - e che se uno le addenta «ligon cmè i carabinér» .

Debitamente sbucciate e tagliate a fettine, venivano fatte bollire con tanto zucchero e con un’aggiunta di senape. Il tutto veniva poi introdotto in vasetti di vetro e accuratamente messo a riposare nella stanza fredda dove venivano tenute le provviste alimentari. Un‘altra salsa che si preparava in vista del Natale, proprio nei giorni dei Santi e dei Morti, era il «cren». La «rezdóra» provvedeva a grattugiare la radice del rafano alla quale aggiungeva olio, sale ed, in certi casi, anche una lacrima di grappa o di aceto per renderla ancor più gagliarda nell’abbracciare i lessi natalizi. In città, invece, era usanza (rimasta tutt’ora), di fare o acquistare in pasticceria le tradizionali «ossa da morto» dolci nelle diverse versioni: pastafrolla, con le mandorle, con la glassa. Un modo come un altro per esorcizzare il mistero della morte con i piedi sotto la tavola. Alla…«pramzàna»!