Le vacanze dei parmigiani tra gli anni Trenta e il dopoguerra
Parlare di vacanze in questo periodo, se gli anni scorsi era un piacere, ora non solo è un problema, ma rappresenta pure una notevole difficoltà specie se si sceglie di trascorrere le ferie al mare. La colpa di tutto ciò, com’è noto, è di questo maledetto virus che ci ha cambiato la vita. Ma, come per magia, proviamo ad immaginare le vacanze estive dei nostri nonni che, non saranno state molto esotiche, ma, almeno, per chi poteva permettersele, avevano il pregio della tranquillità e dell’eleganza. Ad esempio una bella foto, d’inizi 900, pubblicata nella raccolta «Parma di una volta» (Gazzetta di Parma editrice) dell’indimenticato Tiziano Marcheselli, ritrae due eleganti signore parmigiane, con domestica al seguito, che terminate le vacanze, sono scese dal treno in Stazione e si stanno dirigendo verso casa attraversando viale Bottego.
Riferendoci, invece, agli anni Cinquanta o giù di lì, le partenze per la villeggiatura erano diversissime dalle attuali al punto da assomigliare a «camel trophy» in piena regola. Alla mattina prestissimo (a volte ad orari antelucani) c’era la sveglia preceduta da un’agitazione serale non indifferente. Le valige, rigide ed ingombranti, erano pronte già da alcuni giorni. Si attendeva solo di chiuderle all’ultimo momento inserendo gli spazzolini da denti ed il dentifricio. L’operazione della chiusura dei bagagli era movimentata e convulsa in quanto, delle tre o quattro valige, una solitamente non si chiudeva mai ed occorreva la pazienza, ma soprattutto la forza erculea del capofamiglia il quale, usando tutta l’energia che aveva in corpo, riusciva a chiudere il bagaglio ribelle con la speranza di riaprirlo in albergo.
Dopo avere fatto una colazione leggera per non appesantire troppo lo stomaco in vista dei tornanti, si caricavano le valige sulla Topolino o sulla Giardinetta. Il viaggio vero e proprio iniziava alle porte della città, destinazione il mare più vicino a casa: il Ligure o il Tirreno. In direzione Langhirano o Fornovo (a seconda del passo prescelto da valicare), si procedeva verso il Lagastrello ed il Cirone ( in entrambi i passi la strada non era ancora asfaltata), oppure si optava per la Cisa, il Bocco o il Centocroci in quanto l’autostrada non era che un sogno o un’immagine fantastica che si poteva scorgere in qualche film americano.
Si attraversavano strade provinciali costeggiando campi e prati che vedevano già all’opera frotte di contadini, si incrociavano pochi autoveicoli, qualche camion ed una pattuglia della Stradale a bordo di gigantesche e rumorose moto. Poi, finalmente, ci si inerpicava per strade in salita che obbligavano a scalare una marcia facendo ringhiare il motore della povera utilitaria. Ed iniziavano le curve. Il percorso, come per una sorta di strano maleficio, si tramutava in un toboga e, fatti alcuni chilometri, ecco le prime fermate sul ciglio della strada per dare la possibilità ai bambini di liberarsi della precedente colazione mentre la mamma teneva loro la fronte. Dopo un centinaio di curve, alcune soste «idrauliche» al limitare di boschi e prati, mai contate fette di limone anti - nausea che venivano inghiottite come pane, si giungeva al fatidico passo dove la sosta era d’obbligo (quasi si fosse raggiunta la vetta dell’Everest o del Bianco) per godere il panorama, respirare aria buona e addentare quel panino che la nonna aveva preparato con cura a casa. Dopo di che iniziava la discesa verso il «mare nostrum» attraversando paesini che, poco a poco, abbandonavano sembianze alpestri per acquisire fattezze marinare con tanto di palme, ortensie e gerani nei giardini, profumo di ginestre e oleandri, facciate delle case dai colori vivaci e un sole che diventava sempre più sfavillante quando, usciti dall’ennesima galleria, si specchiava sull’acqua azzurro - cupo del mare.
Finalmente si era giunti alla meta. Improvvisamente apparivano spiagge ben ordinate con file di ombrelloni e sdraio, cabine bianche come cresimande, baracchini dove si vendevano bibite e cocco e l’immancabile ferrovia che lambiva il lungomare. Già si pregustava il primo bagno nell’acqua salata, i castelli di sabbia, le piste su cui far correre le biglie, la fettina di «coccobello» da gustare rigorosamente dopo avere effettuato il bagno in quel “mare nostrum” nel quale si specchiavano le maestose Apuane con le loro sacre cime, il Pisanino e il Pizzo d’Uccello e dove il bagliore del marmo riverberava la luce del sole. Ed ecco Marina di Massa, la spiaggia dei parmigiani, dove spiccava per la sua eleganza antica l’Hotel Italia.
ANNI TRENTA
Ed allora un tuffo negli anni Trenta è una lecita tentazione. Sulla spiaggia dell’hotel, eleganti cabine lignee intarsiate con motivi floreali, tipicamente liberty, ospitavano bagnanti che indossavano pudichi costumi. Eleganti signore paludate con ampie vesti, nel pudibondo secolo di un romanticismo che stava per diventare un po’ più libertino, con i loro costumi a metà gamba, facevano ben attenzione a che il sole non oltraggiasse più di tanto la loro nivea carnagione difesa da ombrellini e ombrelloni. Ma in questa spiaggia, consigliata da tanti pediatri poiché l’aria del mare si sposava con quella delle Apuane, sorsero anche numerose colonie, specie durante il Ventennio, dove tantissimi bambini parmigiani in divisa come tanti soldatini, irrobustivano le loro ossicine al sole, vegliati da severe e inflessibili assistenti le quali, dopo il salutare bagno e la rigorosa seduta ginnica, li riportavano in quegli edifici dalle forme squadrate e tozze come lui, il Duce. All’interno dell’albergo negli eleganti salotti paludati di morbidi velluti, donne fatali adagiate in modo lascivo nei raffinati canapè, col collo avvolto da svariati giri di perle, recitavano versi dannunziani fumando sigarette dal tabacco esotico aspirato con lunghi e preziosi bocchini. Gli affreschi liberty alle pareti facevano da sfondo ad eleganti dame, impettiti ufficiali in uniforme estiva bianca, famiglie benestanti con tate al seguito, donne fatali in cerca del principe azzurro, anziane e ricche vedove con la speranza che l’aria del mare potesse farle nuovamente diventare.. allegre.