«Sono stato fascista anch’io»
Anch’io sono stato fascista. Al sabato, di solito. Mettevo la mia camicina nera. Le braghette grigioverdi. Il fazzoletto azzurro da balilla e andavo a scuola. Terza elementare. 1942. Al sabato, appunto, non si parlava delle solite materie, la grammatica, la geografia, l’aritmetica. Si scendeva nel grande cortile, si cantava, si marciava, si facevano esercizi con i nostri moschetti da ragazzi.
Il maestro si arrabbiava quando, nel cantare, dicevamo “Per Benito e Mussolini eja eja alalà”. Aveva ragione. Non si mettono delle “e” tra un nome e un cognome. Sopratutto con quel nome. Ma a cantare veniva meglio così: era il ritmo che ogni volta ci faceva sbagliare. Non sbagliavamo quando attaccavamo con il nostro inno. “Fiero l’occhio, svelto il passo, chiaro il grido del valore”, specialmente quando alzavamo la voce per dire: “Ai nemici in fronte il sasso, agli amici tutto il cuor”.
Tornati in classe, c’erano i discorsetti del maestro. Io mi perdevo a guardare la parete dietro la lavagna. Il alto il Crocefisso. Mi veniva da pensare a chi dovevamo dar ragione. Al prete del catechismo che ci raccomandava di voler bene a tutti, anche ai nemici, o alla faccenda del sasso in fronte. Lasciavo perdere, guardavo più in basso. A destra c’era il ritratto del Duce. Con quella mascella, per forza comandava tutti. Una volta, in un tema in classe, avevo scritto: “Io da grande voglio fare il Duce”. Poi avevo cancellato. Pensavo che mi avrebbero sgridato. Più a sinistra, sulla parete c’era un vecchio in divisa. Era il Re. Ma a me, se ci pensavo, veniva in mente un gatto impagliato.
Un giorno vennero a montare in classe l’apparecchio radio. Una scatoletta di legno nera. Da lì veniva la voce del direttore della scuola. Una voce buona, sembrava come quella di un nonno. Di tanto in tanto si interrompeva per lasciar posto a notiziari e a canti patriottici. Anche a pezzi dei discorsi del Duce. Le sue parole più ripetute erano quelle di quando aveva annunciato la guerra. “Vincere, vincere, vincere”, gridava Mussolini. E un canto militare spiegava: “E’ la parola d’ordine d’una suprema volontà”. Una mia zia che abitava in Strada Garibaldi faceva un dolce con le mandorle e lo chiamava “la suprema”. Però pensavo che non c’entrava molto con la faccenda del “vincere. vincere, vincere”.
Era una festa quando la radio annunciava che il nostro alleato Giappone aveva fatto una conquista. Prima le Marianne, poi le Caroline, poi le Filippine. Sul momento mi era sembrato che si trattasse di ragazze. Ma subito dopo avevo capito che erano isole. Sulla copertina della “Domenica del Corriere” un disegno ci aveva entusiasmato. C’erano indigeni che si calavano dalle piante e facevano prigionieri i soldati inglesi. Nei pomeriggi sognavamo di ripetere l’impresa nei prati di Viale Mentana. Con gli indigeni mettevamo anche i Tigrotti della Malesia, che avevamo imparato ad amare dai libri di Salgari, anche se sapevamo leggere poco.
Carlo, il mio compagno di banco, voleva essere Sandokan. Era sicuro che avremmo vinto la guerra: i nostri alleati giapponesi erano capaci di combattere per più di un mese mangiando soltanto una scodella di riso al giorno, mentre gli americani non pensavano che a ballare.
Intanto passavano i giorni, i mesi. Era stata la radio a dirci che presto il Duce sarebbe venuto a Parma per premiarci perché eravamo stati i più bravi a coltivare il grano. Un maestro in divisa venne da un’altra scuola per scegliere i balilla che avrebbero accolto il Duce nel Giardino Pubblico.
Ci mise in fila e cominciò a guardarci uno a uno con la faccia cattiva. Dovevamo fissarlo senza mai abbassare gli occhi. Da lì, ci spiegò, capiva il nostro carattere. Quando toccò a me, una coccinella andò a posarsi sul colletto del maestro e io non riuscii a non seguire con lo sguardo lo zampettare della bestiolina. Bocciato. Non ero riuscito a tenere lo sguardo fisso sul suo. Niente Giardino Pubblico. Mi venne da piangere, ma il giorno della visita riuscii ad arrampicarmi su un’edicola chiusa di Strada Garibaldi e vedere il Duce a passare. Era in piedi su un’auto scoperta e faceva il saluto romano.
A quell’edicola, quando avevo qualche centesimo, ero andato poi a comperare i miei giornalini. Su una prima pagina, sotto le figure, c’era una storia che diceva in rima: “Re Giorgetto d’Inghilterra/ per paura della guerra/ chiede aiuto e protezione/ al ministro Ciurcillone:/ qui ci vuole un’idea buona/ per salvare la corona”. Ma quel balordo di ministro non aveva che idee ridicole e la storia finiva così: “Spetta adesso a Ciurcillone/ la dovuta punizione”.
Noi ragazzi ridevamo di quel Ciurcillone. A me sembrava di averlo visto. Faceva il barbiere in Borgo del Parmigianino. No, era impossibile. Gli assomigliava. Di sicuro mi ero sbagliato. Quelle storielle ci facevano sentire contenti: non avevamo nessun Ciurcillone a comandarci.
Venne il giorno del Giuramento. Dovevamo tutti trovarci nel cortile della scuola di Piazzale Alessando Volta. Un giovanotto in divisa era salito sulla torretta e aveva letto al microfono: “Giuro di servire con tutte le mie forze e se necessario col mio sangue la Causa della Rivoluzione fascista”. Mentre una mitragliatrice sparava in cielo, noi tutti avremmo dovuto gridare “Giuro”. Mi era accanto il mio compagno di banco, Carlo, che mi aveva detto di non gridare niente.
Poi, adagio, a un orecchio, mi aveva spiegato: “An’sa mei. Non si sa mai”.
Giorno dopo giorno, sentivamo che qualcosa stava cambiando. Carlo mi aveva detto, e non sembrava proprio una domanda: “Perché la radio non parla più di vittorie?”. E un altro nostro compagno ci aveva parlato di un giovanotto che mesi prima ci veniva a vendere il gelato col suo carretto bianco e celeste davanti alla scuola. Perché non veniva più? Un altro ragazzo ce lo aveva spiegato. Era andato soldato, in Africa. Ed era stato ucciso in un posto dal nome difficile, forse Giarabub.
Mia nonna era molto brava nel lavorare a maglia e aveva fatto un maglione per un’amica che abitava in campagna. Per ricambiare, questa amica ci aveva portato un coniglietto, bianco e nero. Era stato messo in solaio e spettava a me tenerlo pulito, portargli l’acqua e il mangiare. Andavo a prendere l’erba un poco oltre Viale Mentana. Un giorno quattro militari fascisti mi avevano fermato e fatte molte domande. Perfino se stavo aiutando i nemici della Patria. Non capivo che cosa c’entrava l’erba medica con la patria. Pochi mesi dopo la mamma mi aveva detto tutta contenta che avremmo mangiato carne, anche se la tessera di guerra ce ne permetteva pochissima.
Quando il piatto era stato portato in tavola avevo capito che si trattava del nostro coniglio. L’avevo buttato a terra e piangendo avevo detto che non avrei più mangiato carne in vita mia.
Un giorno nelle strade dicevano che il Duce era stato arrestato. Con molti altri ero andato in casa di una signora che aveva la radio: ogni quarto d’ora trasmettevano la notizia. Era vero. Ero poi corso a prendere lo scatolone dei soldatini e avevo tirato fuori Mussolini a cavallo. In un prato avevo scavato una buca e avevo sepolto il duce. Non sapevo se dispiacermi o no. Del resto due mesi dopo Mussolini era stato liberato e aveva ripreso a fare il duce, anche se non proprio come prima.
(1- Continua)