Quella lezione di Morandi sul Rembrandt incisore
Con il filtro benefico del tempo esce il ricordo di un mio lontano incontro con Giorgio Morandi nella sua casa di Via Fondazza, oggi diventata museo; benefico nel senso che restituisce l’atmosfera di rarità e insieme di naturalezza a quella visita, suggerita dal desiderio di portare in omaggio il primo esemplare del volume con cui «La Nuova Italia» inaugurava una preziosa collana di grandi incisori e disegnatori, iniziando con Rembrandt.
Fu infatti il nome del grande olandese a suggerirmi l’idea dell’omaggio, sapendo quanto la sua arte avesse un posto segreto nelle sue predilezioni; un segnale rassicurante quella «Négresse couchée» che vidi appesa alle pareti del salotto di Via Fondazza in occasione di un’altra visita, di tanti anni prima, ancora studente, nata dalle pressioni di un compagno di scuola, scrittore scalpitante e intraprendente (che poi ne ricavò uno strampalato articolo). Diviso tra l’irrealtà della proposta e la più sottesa attrazione per un artista che era già entrato segretamente nella mia vita, scrissi al pittore dal quale, con sorpresa, ricevetti la conferma di un appuntamento. Una visita di devozione, forse imbarazzante se non fosse stata attivata dall’arrivo di Francesco Arcangeli e di Denis Mahon che, appena giunti da Londra, mostravano a Morandi il frutto delle loro ricerche, una serie di fotografie di disegni che innescarono subito un gioco di attribuzioni sorprendente per noi intimiditi visitatori, nel cogliere soprattutto la competenza con cui il pittore interferiva tra le supposizioni dei due ferratissimi studiosi. Vengono in mente le parole di Longhi, «Per meglio intendere il moderno Morandi, io amavo, insomma, interrogarlo sugli antichi».
Anni dopo incontrai nuovamente Morandi ad una cena dopo l’inaugurazione di una mostra, circostanza rara date le consuetudini schive del personaggio, protetto da quel riserbo che quella sera Arcangeli aveva evidentemente contribuito a temperare. Fu in realtà un’occasione conviviale in cui la conversazione con Morandi risultò straordinariamente viva, uno scambio di pensieri che trovava alimento dalla comune amicizia con Luigi Magnani, legato a Morandi da una lunga frequentazione. La naturalezza di quel discorrere, toccando vari luoghi del paesaggio artistico, non senza qualche sortita giocosa mi confortò nell’idea di portargli l’esemplare rembrandtiano che avevo appena ammirato in libreria per la perfezione della resa tipografica. Ammirazione subito espressa da Morandi, con quella sua gestualità un po’ impacciata, quando dopo aver accuratamente aperto il pacco si trovò di fronte alla raccolta delle tavole in fac-simile che iniziò a passare una ad una, dando vita, per me che sedevo al suo fianco, ad una vera e propria lezione. Furono due ore indimenticabili per la forza avvolgente di un respiro che movendo dal fascino del magistero tecnico che ogni tavola sorprendeva chi come lui all’incisione dedicava una concentrazione estrema si allargava a cogliere il mistero racchiuso in quella lastra: partendo dall’analisi con cui Morandi osservava ogni stampa, individuando i vari stati, che mi faceva notare indicandomi col dito le sottili diversità di grigio, fino al nero più accecante, ottenute attraverso le varie morsure. Quando dalla lunga, paziente sequenza apparve «La Négresse couchée» Morandi si alzò e andò a staccare dal muro il proprio esemplare avviando un raffronto minuzioso e stupefatto nel rimarcare la sottigliezza di trapassi dovuta alla diversità degli stati dei due esemplari e nell’interpretare il significato degli effetti dovuti al ritornare dell’artista sulla lastra con ulteriori morsure per trovare il fuoco giusto, liberare altri fantasmi.
Pareva rinnovarsi in quell’esame così sottile il senso di quella misteriosa complessità che emana l’arte di Morandi dietro l’apparente semplificazione del campo d’osservazione, decantazione di un pensiero nato dalla ricerca di un ordine che si cela dietro le cose, sempre più impalpabile, eppure turbato da una inesausta pressione esistenziale: ancora Longhi, nella rivelatrice presentazione alla mostra fiorentina del ‘45 al «Fiore» inauguratasi il giorno stesso della liberazione di Bologna, «il monaco Morandi nella sua cella è dunque il contrario dell’esteta nella sua torre d’avorio».
La lezione di quella mattina di fronte ai fogli di Rembrandt lasciava infatti capire quanto il supremo virtuosismo dell’incisore avesse agito in profondità, come l’incontro con il grande olandese fosse stato più ancora che un ardimentoso modello di tecnica, uno «stimolo ad un’indagine personale, invito ad un’ombrosa liberissima fantasia» (Arcangeli).