Romanzo: «L'Album di marocchino rosso» (Diabasis)

Un flash e l'addio, Stefano Spagnoli tra realtà e finzione

Emilio Zucchi

Senso avvolgente, spiritistico del mistero percepito con sensibilità tardo-vittoriana e liberty, ma unito a una barocca inclinazione di fondo: struggersi per le forme illusorie, per le ipertrofiche, labirintiche apparenze di cui è fittissima la trama della realtà; oggetti, oggetti, oggetti... Stefano Spagnoli, artista figurativo ammirato e in varie occasioni valorizzato, tra i tanti, da un gigante della letteratura come Edoardo Sanguineti, ora passa dal pennello alla penna. Pubblica infatti per Diabasis, in una elegantissima e singolare veste grafica, un insolito e sorprendente romanzo breve «L'Album di marocchino rosso» (pag. 130, euro 28). Nel rapinoso andamento di una prosa assai colta, ben nota ai lettori della Gazzetta, batte lo strano congegno (e torniamo al barocco...) di una storia gotica, più che poliziesca. O poliziesca senza ribollii gastronomici, come va invece di moda da ormai diversi anni tra i giallisti italiani.

Lieve e, talvolta, quasi oniricamente ludica, pur nella non lesa gravità del tema di fondo - la morte -, la scrittura di Spagnoli dà vita a un fantasma; quello di Leonard Lake, fotografo attivo tra la fine dell'Ottocento e i primi vent'anni del secolo scorso; attivo, in realtà, solo nella fervida fantasia di Spagnoli, il quale, all'inizio del romanzo, spiega di essersi imbattuto in una rivista del 1906, «Bystander», contenente ritratti di signorili personaggi dell'epoca, e di aver immaginato che le foto fossero state scattate, appunto, da un certo, e apprezzatissimo, Leonard Lake. Il bello viene nelle pagine successive, quando apprendiamo, da un manoscritto dello stesso Lake (inevitabile l'accostamento all'espediente narrativo di cui si avvalsero, per esempio Cervantes, Scott e Manzoni) che, dopo lo sviluppo, i volti di alcuni di quei personaggi rimanevano leggermente abrasi (abrasioni che nelle foto riportate nel libro sono ovviamente malandrina opera di Spagnoli) e che poco dopo morivano (e anche Lake, farà la stessa fine, verremo a sapere). Questo, in estrema sintesi, il prologo della vicenda. Estrema perché, nelle poche pagine che lo compongono, Spagnoli, con barocco e fortemente espressivo senso dell'accumulazione (figura retorica che trema di ansia, e disperatamente trema d'assoluto), sciorina innumerevoli dettagli tecnici, notizie storiche, particolari riguardanti il costume degli anni in cui i fatti si svolgono.

La parte narrativamente portante del romanzo (metaromanzo, per essere più precisi) è costituita da quattordici ritratti. Per ognuno c'è una storia e di ognuno viene registrato il funestissimo epilogo. Ogni ritratto è ricchissimo di particolari biografici, tanto che un lettore distratto potrebbe ritenere si tratti di un serio lavoro storiografico condotto a termine da Spagnoli con accurate ricerche d'archivio. Apprendiamo, per esempio, che il soprano Cleo Hunnicliff (personaggio immaginario, come si è capito) «scomparve a Capri durante un'escursione alla Villa di Tiberio. Il paese intero, dove era molto nota e amata, continuò a cercarla per settimane. Memorabili le fiaccolate notturne che in alcuni casi misero a rischio la lussureggiante e aromatica vegetazione dell'isola». E di Lord Desmond Lokett veniamo a sapere che «fu considerato un rispettabile e poco ingombrante eccentrico fino alla tragica scoperta del suo cadavere mostruosamente strangolato da una bizzarra macchina, elaborata dallo stesso Lokett per i suoi discutibili giochi auto-erotici». E dei coniugi e benefattori Archibald e Rachel Peabody scopriamo che furono «uccisi dalla peste bubbonica in Manciuria durante una missione umanitaria» e delle sorelle Rhode, con delicatezza da Antologia di Spoon River, Spagnoli annota: «Scomparse nel deragliamento dello Scotch Express il 30 settembre del 1906». Terminata la carrellata dei quattordici ritratti, Spagnoli scopre su internet che Leonard Lake è veramente esistito ed è stato un sadico e crudelissimo serial killer morto nel 1985, e ne racconta il caso da par suo. Così, facendo pensare un po' al Borges di «Finzioni» e un po' all'Orson Welles del finale della «Singora di Shangai» (quello del labirinto di specchi deformanti), Spagnoli tiene alzato un sipario: le sue marionette non muoiono. Ma anche questo è terribile, dopotutto.