Il racconto della domenica
L'affare Durwell nei giorni di Natale
Come sono finito nell’affare Durwell, mi chiedete? D’accordo, visto che su questa storia è calato il sipario e che qui, alla centrale di polizia, nessuno mi degna di nota - darei un braccio per firmare le scartoffie e filare a casa… mancano due giorni a Natale! -, ve lo racconterò. È cominciato tutto ieri sera. Freddo più temporale: non è così che l’inverno pretende attenzione? Io la chiamo la perfida malìa di dicembre. Già, quando di botto cala la sera e tu ti fermi per strada ad ascoltare il lamento di un sax che zampilla da una finestra. Riuscite a capire? Forse. Proviamo con tre versi, li ricordo dalla scuola:
Il fumo bianco scivolò sul terrazzo, spiccò un balzo e vedendo che era una soffice sera di dicembre s’acciambellò attorno alla casa, e si assopì.
È un dannato mistero d’atmosfera... Vabbè, procediamo. Avevo chiuso l’ufficio in anticipo: la mia segretaria era malata e i clienti parevano estinti come i dinosauri. (E come dargli torto? Nessuno, durante le Feste più luminose dell’anno, vuole naufragare in solitudine sulla scogliera della verità. Meglio aspettare l’anno nuovo, le illusioni tanto non hanno data di scadenza). L’ultimo caso l’avevo accettato quasi un mese prima: lettere anonime inviate alla sorella di un avvocato. Il misterioso mittente? Un amante scaricato. Che fantasia…
Quando la giornata di lavoro finisce bene, cioè presto, vado a farmi un bicchiere da Hank; sta a mezzo isolato, sempre negli Washington Heights, sulla 171esima. Mi piace perché gli ubriachi e le coppiette girano altrove. Ieri sera era praticamente vuoto, due lampadine andate lasciavano in ombra parecchi tavoli. Beh, ficco l’ombrello da qualche parte ed Hank mi dà uno shot di rum. Parliamo un po’, le solite ovvietà. Quando sto per snocciolare 80 cents sul bancone e prendere l’uscio, una mano mi blocca. Riconosco quelle dita: «Me lo offri tu il rum, galeotto?». «Eccome» mi fa Tom Sunday che veste come sempre un completo chiassoso. Non sapevo fosse fuori: gli avevano regalato un soggiorno di tre anni per spaccio, ma la buona condotta, si sa, fa miracoli. Tom si atteggia a malavitoso, ma è un bamboccione; nel quartiere la roba lui la vende e basta, quindi non ha nemici. (Sia chiaro: voler bene, qui a New York e in questo 1938 agli sgoccioli, significa solo fingere che l’onestà alberghi ovunque e limitare le domande a quelle che si fanno al commesso dell’emporio se un prezzo sulle scatole dei fagioli è cancellato). Tom Sunday… In teoria, saremmo quasi soci: fare l’informatore per me frutta. In pratica a sbatterlo dentro sono stato io perché la soffiata alla polizia è partita proprio dal mio telefono. Che volete, i guasti al motore costano parecchio oggigiorno.
«Devo presentarti una persona. È il mio regalo di Natale» butta lì Tom. Poi accende un sigaro lentamente - fa più scena - e punta la zona in ombra. Lo seguo. Solo allora intravedo due gambe: un tavolo è già occupato.
«Questa è Kelsi Durwell». «Difficile non notarla» ridacchio. Nessuno mi invita a sedermi. Tom glissa sul mio commento, ha fretta: «Digli tutto, tesoro». Kelsi ha il visetto timido di chi si è imbattuta per caso in due vecchi zii con cui non condivide nulla, se non il tacchino del Ringraziamento. Devono essere reduci da una festa perché l’abito di lei è elegante: il soprabito ne incornicia le forme quasi fosse un dipinto. E io adoro l’arte. Tom la incalza tenero, è chiaro che con la ragazza il mestiere dello zerbino sa farlo benissimo: «Su tesoro, te l’ho detto, è un amico. Puoi fidarti». Kelsi giocherella con un braccialetto. Ed ecco la sua voce filtrare tiepida dai denti: «Mio padre è un tipaccio, ci segue da giorni. Mi odia perché sono scappata con un uomo. Lunedì è entrato nell’appartamento di Tom e per poco non ci ammazzava. Ha una pistola». D’istinto metto una mano in tasca e cerco il revolver. La ragazza nota il mio gesto, sembra rassicurarsi: «Ci difenderete? Dagli sbirri non possiamo andare, Tom è sul loro libro nero». Il racconto di Kelsi pare un film, devo vederci più chiaro. Sto per fare altre domande quando il volto di Sunday sbianca: la porta del bar si è aperta portando profumo di pioggia. E di guai. Sulla soglia compare un tizio. Dalla sagoma lo diresti Santa Claus tanto è robusto. Due lampi, due botti. Hank grida di paura, si abbassa. Mi butto a terra e sparo anch’io; un colpo e il tizio va a terra. Quiete lunare per un minuto buono. Mi avvicino. «Si sono presi tutto…» dice Santa Claus prima di morire. Doveva essere proprio alla frutta per mettersi a sparare così. Romeo e Giulietta hanno preso il volo, è Hank a dirmelo. La Omicidi non ci ha messo niente a fare due più due: erano entrambi in tiro perché in banca gli straccioni, anche se fanno gli occhi dolci, non convincono nessuno. Con una firma falsa, hanno prosciugato il conto al povero Durwell e lui è corso in città per fermare la figlia. Ma lei voleva continuare a fare la bella vita col suo boyfriend. E qui entro in ballo io, un detective privato nel posto giusto al momento giusto: più che protezione, volevano che gli facessi guadagnare tempo per la fuga affrontando il paparino arrabbiato. Fessi. Perlomeno con la legittima difesa ne uscirò pulito.
Poco fa un agente mi ha detto che li hanno presi, stavano lasciando lo Stato su un’auto rubata. Kelsi, ci scommetto, sarà fuori in un baleno: giudice e giuria si rabboniscono sempre davanti ai singhiozzi. Mi duole se dovrà farsi tante ore in autobus per vedere Tom; non ce la vedo proprio a reggere le frecciate dei secondini.