Il racconto della domenica
La gabbia
«Chi sono io?». Questa era la domanda che tormentava l’animo di Federico Lucci che, dopo aver perso il pullman per tornare a casa, aveva deciso di incamminarsi facendo affiorare i dolci ricordi passati. Dopo aver percorso una buona fetta di strada, si riposò sedendosi sul ceppo di un albero con il quale condivideva numerosi ricordi di quando quest’ultimo era un salice imponente.
Si ricordava ancora il brivido che gli attraversava la schiena a causa del freddo dovuto alla pioggia, quando sedeva riparandosi al di sotto dei rami per non piangere da solo o per farsi sentire unicamente da se stesso. Si ricordava ancora il rumore delle foglie che giacevano sotto l’albero in autunno e della neve in inverno. Assaporava ancora il ricordo della visione dei bellissimi fiori primaverili, che danzavano accompagnati dolcemente dall’aria estiva che il vento portava con sé.
Posando la mano sulla corteccia ancora viva, si chiese se anche l’albero condividesse questo suo senso di vuoto.
Il ragazzo, dopo aver sostato a lungo tra i suoi pensieri, riprese il suo cammino e, avvicinandosi la sera, sentì dalle finestre delle case i profumi più disparati di cucina: focaccia, sugo, gamberi, fegato, oltre a un odore simile a quello del pesce spada, che però possedeva uno strano retrogusto di tonno in scatola.
Tra tutti questi ne spiccava uno che sapeva di torta di pere, perché gli ricordava la torta della nonna che mangiava spesso all’ospedale con la madre, la quale per motivi di salute era condannata a restare chiusa lì. Dalle finestre della sua gabbia non entrava luce, ma solo frammenti tetri dei lampioni notturni; nonostante ciò, era sempre energica come un passero nel cielo.
La madre di Federico aveva un nome caldo, Emilia, quasi come i ricordi che il ragazzo aveva di lei, dei ricordi puri e spesso contornati da una nostalgia spinosamente dolorosa. Un giorno come tanti, quando era ancora un bambino, gli era capitato di ascoltare la conversazione che il padre stava tenendo al telefono ed era impallidito quando lui aveva cambiato il tono della voce, si era lasciato andare a respiri profondi, inarcando la lunga schiena verso il basso.
Proprio quel giorno, andando all’ospedale, in quella tetra gabbia non era riuscito a trattenere le lacrime, perché il delicato passero non sbatteva più le sue bellissime ali e aveva lasciato il suo uccellino nel nido. Da solo e ferito, sentiva ancora le urla di quell’uccellino che stava volando alla ricerca del caldo nido materno, per trovare quella parte di sé che si era staccata insieme alle piume del passato, che cadevano lentamente a terra.
La giornata era passata velocemente e il ragazzo era ormai arrivato al cancelletto di casa. Il cielo si era fatto più scuro e pesante, esattamente come la porta che si era chiuso alle sue spalle. Si trascinò le braccia e le gambe stanche fino alla sua camera, disordinata e in sintonia con i suoi pensieri. Si buttò nel letto e, dopo aver affondato la faccia nel cuscino per qualche minuto, si girò e guardò la luce del lampadario appesa come una mosca sulla tela di un ragno, simile alla luce dei lampioni dell’ospedale.
Alzò il braccio verso la luce che vibrava nel soffitto nella consapevolezza che fosse irraggiungibile come tutte le cose care e preziose e, legato ai suoi pensieri, si lasciò cullare in un sonno profondo. Perché almeno nei sogni si è liberi, può succedere tutto quello che si desidera nel profondo ed è bello così.
Federico si lasciò cullare e affogare nel suo sogno, sotto la luce della luna che passava indisturbata dalla finestra, alla ricerca della sua strada, forse più calda dei ricordi lontani.