IL RACCONTO DELLA DOMENICA

Anime gemelle

I parallelepipedi di viale Sarca si proiettano in una prospettiva senza sbocco. I marciapiedi sono deserti. Il cielo ha il colore di una patata lessa. Lei cammina un passo avanti a me. Si ferma di fronte al 132.

«Se ricordo bene, è al terzo piano».

Lo sa benissimo. Bicamere, soggiorno, cucina abitabile, bagno, ripostiglio. Ha fatto tutto lei, con l’agenzia.

«Ormai gli affitti costano come il mutuo».

Sarà. Ma in affitto, quando vuoi andare te ne vai. Il mutuo invece ti tiene alla catena.

«È come un’assicurazione: versi un tanto al mese e ti trovi lì un capitale».

Già. Ma la carriera? Quel posto a Roma? E gli imprevisti, li ha messi in conto gli imprevisti?

Ma certo. Li affronteremo insieme, amore mio.

Così chiude la gabbia e butta via la chiave.

La serratura del portoncino scatta con un clac allarmante. L’ingresso è un imbuto, un angolo ottuso che dà sull’ascensore. Poi la cabina buia, che ansima e ci sbarca su un pianerottolo in penombra.

«Mi piace. Fa tanto casa».

Odore di soffritto. A destra, un portaombrelli rosso laccato. Al centro, uno zerbino con la scritta “Salve”. Lei traffica con la porta di sinistra. Apre l’uscio su un’altra penombra:

«Qui staremo ottimamente».

Anche prima, ogni tanto, faceva l’intellettuale. Ma aveva un sorriso che veniva dall’anima e metteva allegria. Aveva perfino le gambe dritte. Portava le scarpe con i tacchi alti. E tutto a un tratto, tutto insieme, questa voglia di tendine alle finestre, i capelli corti, il sussiego.

«Cosa ne dici: quel tramezzo lo buttiamo giù?».

Buttare giù lei. Dal terzo piano? C’è gente che se l’è cavata.

«Beh, non parli più? Cos’è che non va?».

Acida. È diventata acida. Meglio il cianuro.

«Questa è la nostra stanza. E in quella a fianco c’è posto per due lettini».

Sul volto le è tornato il sorriso, ma è di una sconfinata melensaggine.

«Prima o poi dovremo pensarci».

Dovremo? Potremo. Potremmo.

E se me ne andassi? Senza dire niente, senza rispondere agli «Io ti ho dato tutto!», ai «Vigliacco!», ai «Mascalzone!».

Alzare le spalle. Un taglio netto, a muso duro.

«Le piastrelle del bagno: grigio-rosa o grigio-azzurro?».

Mobili, elettrodomestici, parquet, doppi vetri. La mia vita, l’unica vita che ho, consacrata alla cattedrale «casa». Opere e giorni al trapassato futuro. Domeniche di pioggia a escogitare sofismi per compatire quelli che vanno a Roma.

«Certo, la cifra è impegnativa per le nostre attuali possibilità...».

Ma sentitela: parla come un ministro delle finanze, come un capufficio, come un vigile urbano.

«Lo dirò a papà...».

Il colpo di grazia. Dieci anni di suoceri appollaiati in soggiorno, in cucina, in camera da letto. La vita perde due dimensioni, si infila in un tubo unidirezionale, in un flusso che spinge sempre avanti nel buio e annulla orizzonti, grida di gabbiani, vento sulla faccia.

Adesso o mai più. Dipingiti un sorriso ebete a fior di labbra, esegui un sereno dietro front e allunga il passo senza esitazioni. Non stare a pensarci. Just do it.

Troppo tardi. La sua mano sul braccio.

«Firma qui, dove ho firmato io».

La penna: angolo acuto che chiude la prospettiva e cancella le vie di fuga. Si comincia a morire a poco a poco.