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Mario Ferraguti e la storia di un'orfana accolta in convento e devota a Maria
Se fosse dipinto sarebbe Vermeer, se fosse musica sarebbe Chet Baker. Ma questo non è il gioco del «Se fosse» e Mario Ferraguti non ha messo le sue parole taumaturgiche a disposizione di pennello o pentagramma, le ha utilizzate come meglio sa fare: per un romanzo. E lo ha fatto per descrivere l’intimità di una donna – anzi, di due donne - unite da una confidenza rara e segreta. Semplicemente chiudendo una finestra tra loro e il mondo esterno, per non lasciare entrare luce e dare vita a quel buio che, come un paradosso, illumina il racconto. L’autore ha fatto come ragione di vita la ricerca di storie di folklore e di leggende, conosce come pochi l’Appennino parmense. Veri e propri viaggi che gli hanno permesso di realizzare articoli, libri, spettacoli teatrali. È tra gli organizzatori del Piccolo Festival di Antropologia della Montagna che si tiene a Berceto.
Stavolta, però, è sceso in pianura. «Rosa spinacorta» (Exorma edizioni, pag. 175 - euro 16) è scritto con occhi di bambina che osservano l’accadere dal basso verso l’alto (e l’Altissimo).
Occhi vispi che annotano tutto: «A don Sergio non gli cresceva la barba e le sue unghie erano grigie, le mani storte, deformate dall’artrite di cui parlava come un mostro, femmina. La bocca invece era un taglio sottile senza labbra, tanto stretta che non si capiva come facessero a uscirgli voce e fiato». Femmina. Ecco la parola chiave capace di aprire quella finestra nella Bassa. Geografia piatta, dove tutto scorre in campo lungo e all’apparenza quieto, camminando nella lettura su e giù come in un terreno arato, in lungo e in largo. Atmosfera calma come il Grande fiume che scorre lì accanto e che proprio come quelle acque riserva impeti d’inquietudine.
La Seconda guerra mondiale è da pochi anni lasciata alle spalle, Tecla è una bimba orfana, abbandonata nella ruota di un convento, sarà lei la prescelta per accudire e vestire la statua in legno che rappresenta la Madonna dalla rosa spinacorta, gelosamente custodita dalle suore in una stanza lontana dagli sguardi, ma non dalle spine che feriscono la natura umana. Per questo l’avvicinamento a una Regina non è semplice, soprattutto se forzato e mantenuto distante da tutti, non solo fisicamente.
Romanzo spirituale, al contempo poetico e agreste, fatto di superstizioni e di paure, di inferno in tasca, scritto sottovoce dalla protagonista ormai anziana, con carezze letterarie alternate a tuoni e fulmini che scuotono l’anima e che ti fanno sentire l’odore di tutto, come prima del temporale.
Capace di affrontare la morte delicatamente, la gravidanza come il peccato, e il peccato stesso del sentire le proprie forme di donna che crescono e che mutano e che sei costretta a negare, in un luogo senza specchi e di illusoria specchiata trasparenza per mantenere la verginità nello sguardo altrui. Perché «la devozione vera sta nella scomparsa» e perché il destino di chi veste la Regina è quello di diventare niente. Ecco allora che ci si chiede se può un pezzo di legno vestito «con un po’ di rosso sulle guance» suscitare la venerazione. Sì che può: è così. Poi c’è il demonio, che si presenta con mille maschere che ingannano e confondono. Una di queste ha il naso grande e storto, rughe come solchi di terra, sguardo diffidente, capelli radi e la faccia da matto e tutti lo chiamano Toni il tedesco (è il grande pittore Antonio Ligabue), e dipinge le bestie feroci, che lui le vede nascondersi tra i pioppi e i salici nella golena. Toni non ha zampe di capra e non ha forcone o fuoco tra le mani. Ha solo fogli, e colori, e fame, e bisogno di amore. E Tecla lo sapeva che era l’unico in grado di fare il miracolo. L’unico capace di accendere la scintilla del mistero per riaprire quella finestra e accedere alla meraviglia.