Viaggio tra i ricordi di un'Asia amata
Borneo - Il bevitore delle stelle
Non era la prima volta che mi avventuravo nelle foreste del Borneo, o come qualcuno preferisce dire del Kalimantan, ma sempre Indonesia. Stando alla mia mappa (non molto attendibile, per la verità), ero dalle parti di Bukittingi. Unica cosa che riconoscevo di aver già visto era una lunga siepe di piante carnivore. Vi spuntano delle specie di boccucce dentate che emanano un tenue profumo molto accattivante per gli insetti che capitano attorno. Ho visto aggirarsi vermetti verde smeraldo, farfalline rossonero come se vestissero la maglia del Milan, mosche dorate. E tutte le bestiole finivano tra i dentini vegetali che subito si richiudevano. Immediata l’operazione: un olio quasi giallognolo ribollente provvedeva alla digestione. Mi ero sempre tenuto a rispettosa distanza da questa mangiatrice di insetti nella irragionevole sensazione che potesse beccarmi a un gomito o a chissà cosa.
Avevo ripreso il cammino seguendo un sentiero che non sapevo dove mi avrebbe portato. Una prima sosta mi fu comandata da uno sfrecciare di ragazzoni che sbucavano e riemergevano tra i cespugli inseguendo una specie di pallone fatto di foglie e di rametti raggomitolati. I giocatori cercavano di afferrarlo e di difenderlo dagli altri. Tutto sommato un gioco non tanto diverso dai nostri. Quando la partita parve concludersi, potei meglio osservare gli (diciamo così) atleti. Erano giovani svelti, anche se di figura stranamente stortignaccola. Non capivo bene il loro nome, così mi venne di battezzarli Virgola Uno, Virgola Due, Tre e così via.
Ci sedemmo in circolo, quando su di noi prese a zirlare un uccelletto. Anzi, a gracchiare, da parere un telefono in funzione. Virgola Due ne fu infastidito e pregò quello che sembrava il loro capo: «Digli che non ci sono». Gli altri risero alla battuta, e in ogni modo l’uccelletto se ne andò.
Le parole che Virgola Due aggiunse, e che io non capii, dovevano essere ancora spiritose, tanto che gli altri le accolsero sempre ridendo. Specialmente un’ultima frase (peccato non saperla tradurre) sollevò una generale risata a crepapelle. Ebbi l’impressione che perfino gli alberi attorno fossero presi da un forsennato buonumore. In particolare un albero grassoccio: tutte le sue foglie (un milione, mi sembrò) tremolarono come scosse dalla frenetica risata.
Presto, tuttavia, la compagnia dovette sciogliersi. Prese una direzione diversa dalla mia. Prima di lasciarmi, però, Virgola Due mi raccontò che non lontano da loro, se avessi avuto la pazienza di aspettare la notte, avrei potuto incontrare una persona speciale, un bevitore di stelle.
Gli dissi che preferivo mi raccontasse lui la storia. Forse la mia presenza avrebbe tenuto lontano questo strano personaggio. Accettò anche se non riusciva bene a trovare nell’indonesiano più semplice le parole adatte a farsi capire.
Aveva però prima la necessità di sapere una cosa. Ripetè più volte: «Jam berapa sekarng?». Cioè? Mi prese un braccio e mi segnò più volte l’orologio che avevo al polso. Semplice: voleva sapere che ore erano. Gli amici si sarebbero allontanati troppo?
Riassumo quel che ho capito dal racconto. Non molto lontano da dove eravamo, la foresta si apriva in una specie di lago. Un prato di acque. Che non si agitavano mai in onde. Quieto come uno specchio. E certe notti vi si riflettevano le stelle. Allora un uomo. Uno stregone? No. Uno sciamano? No. Insomma, un uomo magico si infilava adagio nel lago (chiamiamolo pure così). Si avvinava alle stelle riflesse e di colpo le inghiottiva. Le beveva, ma non proprio. Le teneva in bocca. E con le gote rigonfie andava in un prato vicino e le risputava in certe buchette, che aveva prima scavato. Dopo un poco di tempo, le stelle germogliavano. Come piccole piante.
L’amico Virgola Due d’improvviso scattò in piedi e dopo avermi detto che forse la faccenda era soltanto una favola (la sua fede islamica non gli permetteva di credervi) corse via verso i suoi compagni.
Non ebbi il tempo di dirgli che anche secondo il mio parere era semplicemente una favola. Del resto, in tutti quei colori mi scese la voglia di un po’ di sonno. Svanito il quale, cominciai a sentirmi in testa molti punti interrogativi. Era tutto reale quel che avevo visto e sentito? O era forse un pezzo di Borneo soltanto sognato? Non seppi darmi una risposta precisa. Ritenni tuttavia di inserire il tutto nel mio taccuino.
Quando raggiunsi alcuni ciuffi di palme, cominciò a cadermi attorno una pioggia (non fitta, per for-
tuna) di noci di cocco. Almeno così mi sembrarono. Guardando verso l’alto, riuscii a vedere chi erano i bombardieri, quelli che lanciavano le noci. Erano scimmiotti, non so di che tipo, che saltellavano da una palma all’altra. Sembravano divertirsi un mondo: di sicuro non avevano intenzioni maligne nei miei confronti. In ogni caso mi sembrò prudente allontanarmi verso altre boscaglie. Ma le scene che mi sembravano da evitare, forse non erano finite.
La memoria era allora galoppata ad altre storie vissute con le scimmie. Era corsa lontano, addirittura in mezzo all’Africa. Nel Kenya. Con un gruppo di colleghi avevo seguito Luca Goldoni (con la moglie), per la presentazione di un suo libro, La tua Africa, come al solito divertente e zeppo di notizie. Quel giorno avevamo in gruppo lasciata Nairobi per distribuirci in turistici bungalow nella zona di Malindi. Io ero stato sistemato al piano terreno d’uno di questi bungalow, sotto l’appartamentino riservato a Luca e alla moglie.
Nel pomeriggio tutta la compagnia aveva scelto di raggiungere la spiaggia: l’occasione era ottima per una gita in barca.
Io vi avevo rinunciato perché avevo un lavoro urgente da terminare. Del resto l’ufficio provvisorio che avevo a disposizione era ottimo: tavolino e sedia in vimini, davanti al bungalow, ovvia macchina per scrivere, carta. E un cesto di banane. Non avrei potuto chiedere di meglio.
E dello stesso parere sembrava un simpatico scimmiotto che mi si era accoccolato davanti. Naturale che non badasse a quel che scrivevo. Era sul cesto di banane che i suoi occhietti erano puntati. Mi era sembrata quindi un’ovvia cortesia destinargli una merenda. Presi una banana e la feci caracollare perché l’acciuffasse al volo. Era una bestiola acrobatica, naturale. Spiccò un bel salto, abbrancò la banana e s’infilò nella veranda di Luca. Un attimo dal palmeto attorno non so quante altre scimmiette che si disputarono ogni altra banana e sparirono tutte nell’appartamento di Luca. Ne derivò un rumoroso infernale trambusto. Pochi minuti e il drappello scimmiesco ricomparve sulla veranda e corse a sparire con la conquistata merenda. Al ritorno di Luca e della moglie, cercai di spiegare come mai la loro stanza di sopra era stata trasformata in un indiavolato caos. E ovviamente furono scuse che condannarono me al ridicolo.
Torno ai miei ricordi del Borneo. Dopo altro cammino, uno strano borbottio di tamburi lontani, mi portò all’ipotesi di qualche sconosciuta festa ma ecco tra le piante levarsi un guerriero con i pennacchi di tribù sconosciute. E anche con la pelle un poco scura non solita da quelle parti. Aveva tra le mani un’arma puntata verso certi cespugli, poi, d’improvviso verso di me.
Una cerbottana, lunga, robusta. La scena poteva essere terribile, però, si era subito sciolta tra le grida allegre e i gesti di saluto, che mi invitavano a andare verso di loro. Erano giovani che fingendosi guerrieri stavano allestendo una specie di spettacolo. Ancora una sosta che prometteva di essere divertente, ma capivo che le mie esplorazioni erano finite.
(1 - continua)