intervista
Ferruccio de Bortoli«Il giornalismo torni sulla strada»
Giangiacomo Schiavi, ex capocronista e vicedirettore del «Corriere della Sera», torna in libreria con una nuova edizione aggiornata del libro Scoop! (sottotitolo: Quando i giornalisti fanno notizia). Per gentile concessione dell’autore e dell’editore, pubblichiamo l’intervista a Ferruccio de Bortoli – un omaggio al giornalismo di qualità e un invito al giornalismo a tornare sulla strada – che chiude il volume.
Ferruccio De Bortoli, una vita nel giornalismo, due volte direttore del «Corriere della Sera», direttore del «Sole 24 Ore», editorialista, scrittore, commentatore, civil servant impegnato nel volontariato, presidente di Vidas. Come vede il giornalismo oggi, con i giornali di carta in crisi, l’omologazione e le fake news che abbondano?
«Pur nella crisi dell’editoria, io credo che il giornalismo più autentico, professionale e libero - anche quando c’è un azionista, un padrone - non abbia mai dimostrato come in questo momento la sua insostituibile funzione civile. Se il giornalista è preparato e autorevole svolge un compito prezioso: informa il cittadino affinché sia un soggetto autonomo, libero, percorso interiormente da un sano dubbio su ciò che legge e vede, dotato di spirito critico. Dunque, non un naufrago della Rete, non un oggetto inanimato preda di un algoritmo, non il componente allo stato brado di una curva di tifosi, ma un cittadino consapevole come quello che durante la pandemia si è vaccinato e ha avuto rispetto della fragilità degli altri. La guerra in Ucraina ha visto in prima linea tanti giovani giornalisti, soprattutto donne. Coraggiosi e preparati. Hanno combattuto e combattono, su un altro fronte, la guerra per il diritto dell’opinione pubblica ad essere correttamente informata. La guerra in Ucraina è fatta non solo dalle armi ma anche dalla falsificazione, tecnologicamente accurata, degli avvenimenti. Grazie al buon giornalismo ne siamo immuni. E la decisione di Putin di condannare a quindici anni di carcere chi parla e scrive di guerra, sospendere i social network, rivela che l’arma che teme di più è la libera informazione. Una lezione anche per noi. Un dittatore, soffocando i diritti dei propri cittadini oltre a calpestare quelli degli ucraini, invadendoli, ha spiegato al mondo occidentale - che spesso se ne dimentica - quanto sia importante e centrale il ruolo del giornalismo e della stampa».
Esiste ancora nei giornali il mito dello scoop o è stato surclassato dalla velocità di Internet e dalla necessità di un giornalismo più di approfondimento?
«Eccome se esiste. Senza notizie, non c’è giornalismo. Il mito della velocità può portare a premiare la tempestività rispetto all’accuratezza, questo il vero pericolo. Ma non c’è giornalismo senza la voglia, anche rischiosa, persino per la vita del cronista e dell’inviato, di scoprire qualcosa che denunci le derive del potere, la minaccia della malavita e porti alla luce un aspetto trascurato ma vitale della quotidianità e della storia. Il giornalismo utile illumina gli angoli più remoti di una società. E dove non c’è trasparenza c’è sopruso, violenza, clientelismo, nepotismo e non invece, legge, merito, rispetto dei diritti dei più deboli, sicurezza, fiducia, voglia di futuro. Il giornalismo è il vaccino civile di una società democratica e moderna».
Su che cosa si regge oggi un grande giornale d’informazione? Su notizie, gossip, indiscrezioni o analisi?
«Un grande giornale, nelle sue varie componenti, dal digitale che ormai prevale sulla carta, è come una grande orchestra sinfonica. La si può ascoltare in varie formazioni, dall’assolo di un interprete, una grande firma, all’esibizione di un quartetto di archi o di un ensemble di fiati. Attraverso mezzi diversi, dal vivo o con un podcast, o nella sua versione classica e da collezione, ovvero la carta. Il direttore d’orchestra è ovviamente importante, coordina il lavoro dei suoi giornalisti che, nello strumento (il settore) in cui sono preparati, sono molto più bravi di lui».
Nel giornalismo italiano c’è troppa contiguità con chi si dovrebbe criticare? I giornalisti cani da guardia del cittadino esistono ancora o prevale la linea di non creare problemi all’editore?
«Qui si tocca l’aspetto più delicato e critico della professione. Troppa contiguità con il potere (spesso con rapporti eccessivamente amicali per non dire peggio). Se si è collaterali a una parte politica, non si fa più del giornalismo ma della cattiva - inutile quando va bene - comunicazione. Un’altra cosa. Stesso discorso vale per le imprese, per il potere economico e finanziario. Se poi l’editore è debole e non ha i conti a posto sarà più incline ad avere rapporti obliqui con banche e società o con l’investitore pubblicitario. Purtroppo, su quest’ultimo aspetto vedo un pericoloso arretramento, segno della crisi quasi inarrestabile dell’editoria quotidiana e settimanale. Qui conta, per difendersi meglio, la preparazione e la deontologia dei professionisti. E il loro coraggio, che non è scritto in nessun contratto e in nessun codice deontologico».
C’è qualche mito da sfatare nel giornalismo dei bei tempi andati, di cui si parla come fosse una leggenda?
«La nostalgia è un veleno a rilascio ritardato perché finisce per dipingere i tempi in cui eravamo giovani come romanticamente irripetibili. Rimuove i difetti, esalta i pregi. Se nel Novecento ci fosse stata la Rete - che smaschera facilmente molte bugie e racconti eccessivamente fantasiosi - molti inviati, anche storici, avrebbero avuto vita più difficile. E forse avremmo dovuto rinunciare a un po’ della letteratura di viaggio. Il romanzo faceva spesso premio sull’esattezza dei resoconti. Ma c’erano però cuore, passione, sentimenti che hanno contribuito a scrivere pagine indimenticabili. Non c’è algoritmo, immagine o social network che posso sostituire l’emozione profonda del racconto di un grande giornalista. La parola scritta ha molto più di tre dimensioni».
Un giorno al «Corriere» i giornalisti hanno ricevuto questa mail dal direttore: «Cari colleghi, questa lettera vi complicherà la vita. Ma la discussione che ne scaturirà ci permetterà di investire meglio nel nostro futuro di giornalisti…». Era il 2010 e annunciava la svolta verso la multimedialità, un passaggio che i giornali di carta hanno fatto con fatica e diffidenza… È stato così?
«Più o meno è andata così. Il digitale già da tempo veniva prima ed era necessario che tutta l’organizzazione giornalistica cominciasse a ragionare sul fatto che la carta era una delle modalità con le quali l’informazione veniva offerta al pubblico e non più, ahimé, quella principale. Ciò comportava una completa rivoluzione delle priorità, prima si pensava a come tenere agganciato il proprio navigatore, con varie forme di fruizione, poi al prodotto classico. E, ovviamente, il tutto comportava un completo ridisegno di orari, carichi di lavoro».
Internet ha cambiato per sempre i connotati del giornalismo? E qual è il neogiornalismo?
«Il giornalismo ha avuto, grazie a Internet, tempestività e velocità. E scoperto una multiformità del proprio essere. La Rete non ha schiacciato la professione. L’ha sottoposta a un terribile stress test. Non l’ha resa residuale ma ancora più centrale. Ha esaltato il contenuto di qualità proprio nel momento in cui si pensava che questo potesse diventare una commodity facilmente replicabile da chiunque, da un algoritmo qualsiasi o persino autoprodotta dall’utente. Quest’ultimo spesso è indotto a credere, proprio perché assiste in diretta agli avvenimenti sulla Rete, di non aver bisogno di intermediari professionali. In realtà, ne ha ancora di più la necessità. È come se fosse nudo. Non tutto ciò che appare su un social network è reale e corretto. Il lettore sarà anche testimone ma spesso senza alcuna chiave interpretativa. E dunque è un testimone coatto, un prigioniero delle apparenze».
I lettori lamentano una sottovalutazione del peso della parola scritta, quella che può danneggiare una reputazione. Altri parlano di sciatteria del giornalismo. Sono saltati i controlli e si è diffuso un linguaggio che mai e poi mai sarebbe passato in altri tempi. Con la velocità è finito per sempre l’artigianato in questo mestiere?
«Ecco l’importanza di un’ecologia della parola. L’assillo di essere indicizzati, con il cosiddetto Seo, porta a un’omogeneizzazione dei contenuti, a un pericoloso appiattimento. Ma è anche vero che l’infosfera è costituita da un caleidoscopio di possibilità espressive, con le immagini, i grafici, le interazioni. Qualcosa di straordinario. Il giornalismo muta pelle ma conserva la propria anima se mantiene indipendenza di giudizio e libertà d’espressione. Con qualunque mezzo. Spazio alla creatività. Ma la forza espressiva della parola scritta, che sprigiona al lettore mondi sconosciuti nei quali è unico proprietario della fantasia e immaginazione, continua a non temere confronti. Ed è sempre un mestiere artigianale nel quale la parola ognuno la scolpisce a modo suo, come fosse marmo nelle mani di un’artista».
Il giornalismo ha virato verso il gossip. Prima si cercava di dare il “buco” alla concorrenza. Oggi la concorrenza è ridotta, i giornali non si strappano nemmeno più i migliori cronisti sulla piazza…
«Purtroppo, con la crisi dell’editoria, il mercato si è inaridito. Ma chi sta sulla strada, e non solo davanti a uno schermo, e vuole vedere con i propri occhi, capire, condividere dolori e gioie, avrà sempre il plauso dei colleghi e un’opportunità di carriera. Il gossip, in quanto tale, è una degenerazione senile del giornalismo, se invece è gusto del retroscena, arte del ritratto personale, abilità della descrizione di un contesto sociale, allora è una spezia che non può mancare in qualunque menu. Dipende insomma dalla misura, dalla ricetta e ovviamente dal cuoco».
C’è uno scoop del «Corriere» di cui ti sei sentito orgoglioso
«Ce ne sono molti, moltissimi, ma non li ho fatti io. Dunque, la titolarità è degli autori. Io semmai mi sono preso qualche causa. Ma lo scoop per un giornalista è adrenalina pura. Però bisogna sapersi anche trattenere. Controllare più volte. Oggi l’errore non è perdonabile. E non bisogna mai dimenticare che le persone non sono oggetti. E la dignità va sempre rispettata. In ogni caso».
«La rabbia e l’orgoglio» di Oriana Fallaci è un pezzo indimenticabile, che ha fatto storia: vale più di dieci scoop messi in fila. Eri il direttore che l’ha pubblicato, e non è stato facile. Che cosa è successo la mattina in cui il «Corriere» è andato in edicola?
«Successe di tutto. Una marea di telefonate, un fiume di messaggi. Come se ci fossimo trovati di fronte a un terremoto. Come se quel lungo scritto di Oriana - che ricordo ebbe sedici giri di bozze e a un certo punto chiudemmo se no il giornale non sarebbe più uscito - avesse scosso un pubblico impaurito da quello che era accaduto e ne avesse risvegliato l’orgoglio dei valori di libertà dell’Occidente, la fierezza di una civiltà. Non era un testo razzista. Tutt’altro. Era un pugno nello stomaco a tutti noi che solo una grande giornalista e scrittrice poteva sferrare. Indignandoci, commuovendoci».
Il caso Assange e Wikileks per un po' ha fatto audience. Giornalismo d’assalto, a caccia di scoop, oppure uso criminogeno dei big data?
«Diciamo che la vicenda Assange qualche dubbio su una certa disinvoltura nell’uso dei dati, la solleva. Anche se credo vi sia stata una ingiustificata persecuzione nei suoi confronti. Una figura controversa che non mi appassiona. La percepisco lontana dalla nostra professione. Ma era inevitabile che emergesse, grazie alle competenze tecnologiche, una ribellione allo strapotere della Rete e al controllo globale, e poco trasparente, dei dati e delle vite delle persone. Quando si è trattato poi di elaborare quei dati, di dar loro una forma per offrirli al pubblico, ci si è affidati a un consorzio di giornali e giornalisti. E anche qui un buon giornalismo ha separato il grano dalla pula, constatando che di pula ce n’era e ce n’è, in questo oceano di dati, tantissima. La forma più sofisticata della censura oggi è dare troppo in maniera poco selezionata. E niente passa, niente rimane».
Il futuro sarà sempre più un giornalismo on demand? Servizi su richiesta, newletter, podcast, blog come il «New York Times» e come sta facendo la piattaforma digitale del «Corriere»?
«Diciamo che il futuro vedrà piattaforme giornalistiche in grado di ritagliare l’informazione sui gusti e i desideri degli utenti, quasi un rapporto personale con ogni lettore. Attraverso varie forme espressive, come video, podcast, ecc. Ma il rapporto personale con l’abbonato, che diviene membro di un club esclusivo, non trasforma il pubblico in un insieme di atomi distanti. Resterà sempre l’esigenza di rivolgersi ai lettori o navigatori nel loro insieme. Il discorso civile è per tutti; l’inchiesta di valore pure. Altrimenti l’agorà si dissolve e la democrazia ne soffre».
Siamo più indifesi, oggi rispetto al passato, dalle bufale ?
«No, secondo me lo siamo di meno. La Rete smaschera facilmente le bufale. Il pericolo semmai è la trappola della verosimiglianza. Una cosa ritenuta falsa ma che viene condivisa dalla comunità cui appartengo, selezionata da un algoritmo, appare ai miei occhi come verosimile. Sospetto che vi sia un legame anche indiretto e sconosciuto con la realtà. E falsa oggi ma forse domani non lo sarà. Dunque, le bufale vengono smascherate più facilmente ma gli anticorpi che possiede il lettore, il navigatore, specie la massa di coloro che stanno sui social, si sono purtroppo indeboliti, insieme alla scomparsa dello spirito critico. Questo è il nuovo compito del giornalismo: convincere il lettore a coltivare più dubbi, a guardare gli avvenimenti da un’angolazione diversa, a confrontare più fonti. Informarsi costa fatica. Chi pensa di non farla è già un prigioniero della Rete e di qualcuno che non conosce nemmeno».
Crescera sempre di più il giornalismo indipendente, fai da te? Nella guerra in Ucraina si sono visti anche molti free lance: è il segno del cambiamento?
«Questo è il nuovo fenomeno. Colleghi che diventano editori di se stessi, accollandosene i rischi. Qualche volta, purtroppo, perdendo pure la vita. Nel mondo digitale la soglia di ingresso per nuove iniziative editoriali è più bassa. Andrebbe incoraggiata di più, con maggiori tutele anche pubbliche. Quelle ragazze e quei ragazzi così coraggiosi e preparati svolgono un vero e proprio servizio pubblico. E insegnano anche a colleghi più anziani, e maggiormente tutelati se non privilegiati, quanto sia forte la passione per il mestiere. Una lezione straordinaria sulla quale riflettere».
Nelle crisi della democrazia il giornalismo resta un caposaldo della libertà. Dal tuo osservatorio vedi aumentare i tentativi di bavaglio, di censure, di cancel culture?
«I tentativi di bavaglio ci sono sempre stati. Specialmente nel nostro Paese nel quale l’informazione è ancora considerata, specie dalla classe dirigente, politica, pubblica e privata, come un male necessario, un intralcio. Ma nell’era digitale i confini spesso non esistono. I regimi possono anche vietare, come ha fatto la Russia, l’accesso ai social network, ma la globalizzazione dei mezzi d’informazione ha tolto efficacia alla censura che spesso ha addirittura un effetto controproducente».
Da direttore del «Corriere» hai ricevuto telefonate per non far pubblicare una notizia ritenuta fastidiosa per il potente di turno?
«Molte certo, cortesemente respinte. Poi se un giornale è forte, con una redazione preparata, indipendente, con una grande storia, non ci si prova nemmeno».
Hai scritto: «Nessuno scoop vale una vita», ma tanti giornalisti coraggiosi hanno perso la vita per informare dalle zone calde del mondo. E dove ci sono le dittature questi rischi sono altissimi…
«La vita è più importante di qualsiasi scoop. Ma è anche vero che tanti giornalisti la vita la rischiano ogni giorno per poter dare una notizia. E qualche volta la perdono. Sanno di correrli questi rischi ma non si fermano. Perché questo è il nostro mestiere. Una professione che comporta, ovviamente, dei rischi. Come altre ugualmente importanti per la vita di una società civile. E se non fosse così non avremmo vero giornalismo, ma solo pallide comunicazioni funzionali al potere in tutte le sue forme».
Nella tua direzione al «Corriere» hai diretto Montanelli, Fallaci, Terzani, Biagi, Mo… I loro pezzi valevano uno scoop?
«In alcuni casi valevano più di uno scoop. Pezzi rimasti nella Storia. Svolte nella cultura e nel costume. Ma ogni grande giornalista, se è veramente grande e non perduto nella sua vanità, insegna che non tutti i pezzi valgono la pubblicazione. E più è umile più è grande».
In questa raccolta ci sono molti dei tuoi giornalisti del «Corriere»: Purgatori, Sarzanini, Buccini, Bianconi, Cotroneo, Ferrarella, Guastella, Postiglione, Gatti, Rosaspina, Battistini, Berticelli… Ricordi i loro scoop?
«Certo e li ringrazio di averli fatti con me collega o direttore. Dopotutto con loro ho fatto il freerider. Ho goduto della luce riflessa della loro bravura. Biagi diceva che forse avremmo dovuto pagare noi per fare questa professione che tanto amiamo, non essere pagati. Ecco, forse sono debitore con molti di loro. Ma se ci penso bene con tutte le redazioni con cui ho lavorato. Anche chi non fa uno scoop prepara il terreno perché gli scoop avvengano».