Libri

Vittorio Gallese: Le relazioni nel tempo dell'AI

Giovanna Pavesi

Il libro «Cosa significa essere umani» analizza il modo di vivere il presente nella contemporaneità

Si intitola «Cosa significa essere umani?» (230 pagine, 15,20 euro) e, come si evince dal sottotitolo, «Corpo, cervello e relazione per vivere il presente», ha uno scopo alto, che è quello di rivelare le trasformazioni dell’umanità in relazione alla contemporaneità. «Il libro nasce dal dialogo, lungo 20 anni, con Ugo Morelli e dalla convinzione che il tempo in cui viviamo richieda un radicale ripensamento del significato di essere umani», spiega Vittorio Gallese, uno dei più autorevoli neuroscienziati del nostro tempo che, nel 1992, fece parte del gruppo che individuò i neuroni specchio (la scoperta italiana più citata nella letteratura internazionale), che ha firmato il libro, pubblicato da Raffaele Cortina Editore nell’aprile 2024, insieme a Morelli, saggista, psicologo e studioso di scienze cognitive.
Professor Gallese, perché siete partiti da questo interrogativo?
«Oggi si parla moltissimo di Intelligenza Artificiale e di quanto essa possa essere simile o diversa da quella umana; ci si chiede addirittura se e quando gli algoritmi che oggi guidano molto aspetti delle nostre vite possano divenire autonomi, auto coscienti, dei veri e propri soggetti artificiali. Al di là delle enfatizzazioni tecno-entusiaste, spesso stimolate da giganteschi interessi economico-finanziari e delle parallele grida apocalittiche che rimpiangono i bei tempi andati, non c’è dubbio che viviamo tempi di rapidi e giganteschi cambiamenti. Il libro nasce dall’esigenza di comprendere sempre più e meglio chi siamo noi esseri umani. Il nostro libro, a partire dal suo titolo, volutamente in forma interrogativa, offre molte domande e suggerisce qualche risposta».
Lei partecipò al gruppo di ricerca che, nel 1992, individuò nei neuroni specchio, la chiave per comprendere come gli esseri umani si pongono in relazione con gli altri. A distanza di più di 30 anni, cosa rivela di nuovo oggi quella scoperta?
«La nostra scoperta dei neuroni specchio ha dato un forte contributo alla nascita di una nuova branca delle neuroscienze, le neuroscienze sociali. Dalla pubblicazione nel 1992 del nostro primo lavoro scientifico a oggi la ricerca in tutto il mondo ha rivelato che il meccanismo di rispecchiamento che unisce gli individui è evolutivamente molto antico. Non è presente solo nelle scimmie e in noi umani, ma anche in roditori e uccelli. In specie diverse sostiene capacità adattive in parte diverse, ma che condividono una caratteristica comune: permettere agli individui di comprendere implicitamente aspetti di base del comportamento altrui. La scoperta dei neuroni specchio ha rivitalizzato la nozione di empatia, ha permesso di comprendere come condividiamo il senso delle esperienze altrui e ha permesso di formulare nuovi quesiti e nuove collaborazioni tra neuroscienze e varie discipline, come la psichiatria, la filosofia della mente, lo studio del linguaggio e dell’esperienza estetica».
Che valore diamo oggi al nostro corpo, al suo movimento, alle sue azioni e al suo stare nel mondo?
«Nel libro riportiamo l’attenzione sul corpo, sulla sua espressività sensomotoria e affettiva, considerandolo il fulcro del nostro essere e della nostra individualità. Questa individualità nasce dall’incontro con gli altri, modellato dalla nostra iniziale dipendenza totale dagli altri a causa dell’immaturità del nostro funzionamento corporeo. Senza la cura, il nutrimento e la protezione degli altri esseri umani, non potremmo sopravvivere. La ‘neotenia’ umana, ovvero il nostro nascere immaturi, rende essenziale comprendere e comunicare con l’altro. Il nostro cervello alla nascita pesa solo poche centinaia di grammi e raggiunge il suo pieno sviluppo solo dopo moltissimi anni di esperienze con gli altri e col mondo. È attraverso la relazione che si sviluppa la nostra soggettività e unicità individuale. L’espressività corporea è la base da cui emergono il simbolico e il linguaggio, e la relazione è ciò che più ci caratterizza come specie vivente».
Com’è cambiata e come si è trasformata, nel tempo, la percezione che ha di sé l’essere umano?
«Dall’età moderna in poi ha, a lungo, prevalso una concezione dell’essere umano visto essenzialmente come un’entità immateriale di pensiero, il Cogito di cui parlava Descartes, sovrapponibile al linguaggio e analizzata principalmente sotto un profilo formale e sintattico. Oggi, questa visione è adottata dai modelli computazionali e algoritmici. Questi approcci del cognitivismo trascurano completamente il corpo, vedendolo solo come un mezzo per trasportare la nostra vera essenza, cioè la capacità di processare informazioni e funzionare come macchine computazionali. Tuttavia, noi riteniamo che questa prospettiva sia limitata e nel libro ne spieghiamo le ragioni. Psicologia, neuroscienze, filosofia della mente, sociologia e antropologia concordano sul fatto che per comprendere mente, pensiero e coscienza è indispensabile partire dal corpo. Anche quando sembra immobile, il nostro corpo è in continuo movimento: il nostro cervello sensorimotorio e affettivo si attiva non solo durante le azioni che compiamo, le sensazioni o le emozioni di cui facciamo esperienza soggettiva, ma anche quando le immaginiamo, le osserviamo negli altri o nelle rappresentazioni del mondo create dagli esseri umani sin dal paleolitico. Con la simulazione incarnata, molti circuiti del nostro cervello sono riutilizzati per scopi e processi diversi, non solo per esperire il mondo in prima persona ma anche per dare un senso al mondo e alle esperienze altrui».
Chi sono i “condividui” di cui scrivete?
«Abbiamo preso a prestito questa espressione dall’antropologo Francesco Remotti, capovolgendo l’idea che l’individuo sia il punto di partenza e la socialità quello di arrivo. Sosteniamo esattamente il contrario. Per comprendere l’individuo bisogna partire dallo spazio che ho definito ‘noi-centrico’, formato dalle nostre somiglianze di funzionamento e ambiente. La nostra natura corporea impara a esprimersi creando abitudini e riti, condivisi mimeticamente dai membri del gruppo sociale. Da questo emergono le nostre istituzioni religiose, politiche ed economiche, ovvero la nostra cultura. Le pratiche sociali influenzano reciprocamente la nostra intelligenza corporea. L’introduzione del linguaggio, poi, rappresenta un vero cambiamento radicale, ridefinendo l’intelligenza corporea stessa, producendo la scissione tra io e me, di fatto introducendo i molteplici dualismi che ci assillano: mente-corpo, io-tu, natura-cultura. Parlare di condividui implica riconoscere che in ognuno di noi esiste una somiglianza con l’altro che precede e fonda la differenza. Ciò mi porta alla convinzione che sia la dimensione sociale, e non quella individuale, a definire l’umano».
Le nuove tecnologie hanno influenzato il nostro modo di essere umani?
«Certo che lo hanno fatto, come sempre: l’Homo Sapiens potrebbe ugualmente essere definito Homo Tecnologicus. La tecnologia, dalle prime asce paleolitiche agli smartphones di oggi, è parte integrante della nostra natura. Anche la nostra cultura sarebbe inconcepibile senza considerare la tecnologia. Pensiamo all’invenzione del fuoco, che non solo ha permesso di scaldarsi e cuocere gli alimenti, ma ha anche creato un ambiente attorno cui raccogliersi per parlare, comunicarsi esperienze, raccontare e ascoltare storie, illuminare grotte su cui dipingere animali e figure mitologiche. Ogni tecnologia è il prodotto dell’azione umana ma al contempo plasma e ricondiziona la nostra essenza corporea. Demonizzare la tecnologia non ha senso, in quanto equivale a demonizzare noi stessi. Abbiamo l’esigenza, però, di comprendere la tecnologia e come essa impatti sui nostri stili di vita. La tecnologia è come un farmaco, di cui condivide la duplice natura di cura e veleno. Più ne sappiamo, meglio sapremo utilizzare le nuove tecnologie per migliorare le società, le condizioni di vita e la salute mentale di noi esseri umani».
Si dice che la società contemporanea sia quella della performance, della competitività a tutti i costi e della vanità. In che modo questo elemento può modellare l’essere umano e il suo stare nel mondo, anche in futuro?
«Le attuali società capitaliste (un tempo avremmo aggiunto occidentali, ma oggi il capitalismo, anche se in forme politico-economiche diverse, regna sovrano su gran parte del mondo) esigono un crescente consumo, hanno caratteristiche prevalentemente estrattive e privilegiano stili di vita sempre più competitivi. È un capitalismo che in quanto ‘cognitivo’ riduce, erode in modo crescente la distinzione tra lavoro e non-lavoro. Nonostante il progresso tecnologico, anche oggi però il primo capitale, come sempre, è quello umano: il messaggio costantemente diffuso è che ognuno di noi deve essere imprenditore di se stesso. La spinta all’autoaffermazione, enormemente potenziata dall’uso delle attuali tecnologie, porta all’ipertrofizzazione dell’Io, di cui le repliche digitali con cui ci auto-promuoviamo sui social sono un esempio. La deriva narcisistica non è che la conseguenza di questo modello di società».