I grandi classici
Coniugi Arnolfini, mistero e anatomia di un capolavoro
Un suggerimento prima di iniziare: procuratevi una lente di ingrandimento e tenetela a portata di mano. Fatto? Bene, si va. È il 1434, esattamente 590 anni fa, quando il pittore olandese Jan van Eyck appone la firma al suo dipinto più celebre I coniugi Arnolfini (oggi custodito nella stanza 56 della National Gallery di Londra). La scena: al centro di un’ordinata camera da letto, con un baldacchino sulla destra e una finestra sulla sinistra, ci sono un uomo e una donna che si tengono per mano. Difficile se non impossibile stabilire con certezza l’identità e il ruolo dei due (nel tempo sono state formulate infinite ipotesi: è un autoritratto di van Eyck? O un astronomo chiromante che legge la mano ad una cliente?), secondo però i pareri più illustri, saremmo di fronte al mercante lucchese (trapiantato nelle Fiandre) Giovanni di Nicolao Arnolfini e della moglie Costanza Trenta. E, in effetti, ad un primo sguardo, il quadro appare un semplice ritratto borghese (entrambi i soggetti sono vestiti in maniera elegante e lei indossa il velo bianco delle donne maritate), ma, se si osservano con attenzione alcuni dettagli, l’intera immagine si ammanta di mistero. Spostatevi con la lente sullo specchio convesso appeso alla parete di fondo: lì, sfruttando un’intuizione già cara a Parmigianino, è rappresentato, in modo distorto, lo spazio, la coppia di spalle e altre due figure, una in rosso e una in azzurro, alle quali non è possibile attribuire un volto (potremmo essere noi osservatori?).
L’elemento però fondamentale è che nel riflesso dello specchio ci sono tre palesi incongruenze; la prima: nonostante la donna sia girata di tre quarti, il suo volto non appare; la seconda: le mani dei due non si mostrano vicine né si toccano; la terza: il cane che campeggia al centro della scena, nello specchio è del tutto assente. Come spiegarci questi apparenti errori? Per rispondere, osserviamo la costruzione generale del dipinto. Complici il lampadario, il globo dello specchio, le due mani, il tappeto e il cagnolino, lo spazio risulta diviso in due parti. Quella di sinistra, occupata dall’uomo, ci parla di vita, della prosaica esistenza terrena: ecco una candela - accesa curiosamente di giorno, l’unica del lampadario - e in primo piano gli zoccoli ancora coperti dal fango della strada. A destra, invece, nella sezione della donna, ogni cosa riecheggia la morte: un letto vuoto, cera fredda sul lampadario e, accanto, uno scopino che ricorda le faccende di casa (la pulizia domestica delle donne fiamminghe era proverbiale), ma soprattutto il corpo che si disfa, tornando polvere. In più, la cornice intorno allo specchio ospita piccole formelle circolari con scene dell’esistenza di Cristo: le formelle di sinistra mostrano Cristo vivo, quelle di destra Cristo morto.
Gli studiosi - tra cui Jean-Philippe Postel, autore del magistrale Il mistero Arnolfini (Skira, 2017) - hanno così supposto che il dipinto ospiti l’incontro di due mondi e che l’uomo si trovi al fianco di una defunta (che quindi non può avere, nello specchio, né un volto visibile né una mano tangibile). Nel 1434 Costanza Trenta era morta da un anno, dunque, con ogni probabilità non siamo di fronte ad un ritratto, bensì a un’apparizione che trasfigura ogni oggetto della stanza in allegoria. La donna, vestita di verde e di azzurro, i colori della speranza e dell’amore, in compagnia del suo cagnolino - scomparso anch’esso da tempo e simbolo di fedeltà - si presenta come una visione al marito che veste ancora il nero del lutto. Per quale motivo gli si mostra? Osserviamo di nuovo gli oggetti: la destra di lei è collocata esattamente al centro di due ornamenti: sotto - è il pomolo della sedia gotica - si nota un leone, simbolo di resurrezione; sopra, invece, - è il pomolo della cassapanca con il drappo scarlatto - spicca un essere dalle sembianze diaboliche.
La donna, costretta a stare nel limbo tra bene e male, in Purgatorio, è dunque tornata dall’aldilà per sollecitare i suffragi del marito così che le sue terribili sofferenze possano abbreviarsi. E van Eyck ce lo fa comprendere bene anche dal punto di vista spaziale: la defunta - che ha alle spalle un baldacchino rosso fuoco, eco del tormento ultraterreno - è infatti rivolta verso la luce della finestra la cui parte superiore è formata da tondi di vetro soffiato (il cerchio indica la perfezione) e oltre la quale si intravede una giornata di sole e un ciliegio, albero paradisiaco per eccellenza. A sbarrarle la strada per l’Eden, ci sono però l’uomo e il pesante cassone alle sue spalle su cui sono appoggiate tre arance (quattro, contando quella sul davanzale), segni del peccato originale. Il marito è quindi di ostacolo alla grazia della donna che lo invita a giurare - guardate la sinistra di lui, alzata all’altezza del cuore -, a promettere che pregherà per lei, probabilmente sgranando quel rosario di ambra gialla appeso di fianco allo specchio. Di più: lo scopino notato prima è appeso ad un’alta sedia gotica. Usata per l’allattamento e ornata in alto con una raffigurazione di Margherita di Antiochia, patrona delle partorienti, la sedia però è vuota; Costanza è dunque probabilmente morta di parto senza poter ricevere i sacramenti né fare atto di costrizione. E infatti, sul piattello del lampadario, sopra di lei, c’è una terza, microscopica candela di cui non si intravede neppure lo stoppino: il neonato morto insieme alla madre. Dunque siamo di fronte ad un dipinto tragico, ad una elaboratissima riflessione sulla fine? La M formata dai due coniugi rimanda davvero alla parola “morz”, “morte” nel francese antico? No, e in questo sta il genio di van Eyck.
La nostra indagine ha infatti tralasciato un ultimo oggetto: le ciabatte rosse accanto al letto. Giovanni Arnolfini le ha lasciate lì dopo la morte della moglie, quasi volendo congelare lo spazio della felicità passata? È possibile, ma la loro posizione è bizzarra: la V formata dalle due punte coincide infatti con la linea che, come abbiamo visto, divide il dipinto tra ombra e luce. È come se dunque ci fosse un piede femminile nella vita e uno nella morte: forse una moglie scomparsa e una viva che sta per diventare madre? La stanza cambia allora di nuovo forma: non è più soltanto lo spazio dell’apparizione, ma anche il luogo di un’azione che in procinto di compiersi. La candela sul lampadario, che rimanda all’usanza di accendere un lume per la puerpera, c’è; la sedia alta per allattare e la cassapanca che conteneva di solito le coperte e i cuscini per i visitatori ci sono: tutto è pronto per accogliere una nuova vita. Così, forse, il momento in cui la seconda moglie (una certa Giovanna Cerami) stava per partorire nella stessa stanza e nello stesso letto dove era morta Costanza, scatenò in Giovanni Arnolfini un ricordo struggente che si fece sconvolgimento, shock, visione e, infine, desiderio di fare memoria. Un desiderio affidato ai pennelli di un pittore sbalorditivo che seppe dare una forma e un colore così esatti a quelle emozioni che, anche seicento anni dopo, fatichiamo a distogliere lo sguardo.