TUTTA PARMA

Una presenza amica per chi si metteva in viaggio e i cantonieri sorvegliavano le strade statali

Lorenzo Sartorio

Le loro case rosse ispiravano sicurezza soprattutto lungo il tragitto della Cisa

Camionisti, cantonieri ed aggiungiamo, anche , la Polizia Stradale, quella che, per i parmigiani è sempre stata la «Stradäla». Ebbene, erano proprio loro i protagonisti sulle strade anni ‘50 quando il traffico era molto più scarso di quello di oggi ma, per viaggiare, a causa dei mezzi non certo veloci e maneggevoli come quelli moderni e delle strade non certo lisce come tappeti di velluto, ci voleva una bella resistenza.
Ma iniziamo con le famose case cantoniere che, fino al termine degli anni cinquanta, sorgevano ai lati delle nostre strade principali come, ad esempio, la via Emilia e la Statale della Cisa, voluta dal quell'inarrivabile genio di Napoleone, nel 1808, e realizzata in massima parte dalla consorte, l'amata duchessa Maria Luigia. Quella strada che rappresentò, per i parmigiani, lo sbocco naturale, attraverso la Lunigiana, verso le spiagge amiche della Versilia, del Tigullio e delle Cinque Terre prima dell'avvento della Parma- Mare».
Le casette cantoniere color rosso- amarena che costeggiavano le strade provinciali e statali erano ordinate, pulite, linde come uno specchio, con le vistose scritte sulle facciate e ai lati che indicavano il numero della Strada ed il suo nome oltre rappresentare, per l’automobilista di ieri, un sicuro punto di riferimento. Di lì partivano i cantonieri a piedi, in moto o in bici ai quali spettava il compito di tenere in ordine la strada, pulire i fossi, tagliare l’erba sul ciglio, fare qualche rappezzo all’asfalto, organizzare lo sgombero della neve.
Erano gli angeli custodi del traffico quando autostrade e superstrade non esistevano se non nei film americani e le poche auto e i giganteschi camion con rimorchio circolavano sulle strade di pianura o si inerpicavano sbuffando su quelle di montagna valicando passi a volte impervi specie in inverno. Nella casa cantoniera c’era sempre qualcuno e, quando calavano le tenebre, una fioca luce sul portone e quella della cucina ( che rimaneva accesa fino a tardi) indicavano che lì, in caso di necessità, si poteva trovare una mano amica.
Anche le case cantoniere, nonostante indossassero tutte la medesima uniforme «rosso-amarena», risentivano del clima e delle caratteristiche della zona in cui sorgevano. E, se in pianura erano circondate da nebbia e pioppi, magari con una piccola porcilaia («stabj») nascosta sotto una fronzuta pianta di fico, in collina ed in montagna si adattavano al clima con cataste di legna in bella vista nel cortile, l’immancabile «polär», attrezzi per spalare la neve ammucchiati sotto il portico e, in autunno, non potevano mancare nel cortile i funghi che, distesi su un tavolaccio di legno, essiccavano all’ultimo tiepido sole. Mano a mano che si scendeva verso il mare, dopo il Passo della Cisa, le case cantoniere assumevano un aspetto esotico.
Al posto dei pioppi che piantonavano le «sorelle» della bassa, le «cantoniere» lunigianesi-liguri erano ombreggiate da palme ed oleandri, splendidi gerani abbellivano le finestre mentre poderosi rosmarini , unitamente a deliziosi e profumati orticelli colorati, circondavano la casa.
Per chi viaggiava sulle strade d’una volta queste costruzioni erano divenute un classico punto di riferimento, unitamente ai passi e alle fontane, in cui fermarsi o darsi l’appuntamento. Quante volte il cantoniere nelle gelide notti invernali era costretto ad uscire, indossare nuovamente giubbone e stivali per andare, con altri colleghi, a soccorrere un automobilista che, a causa della neve o del ghiaccio, era andato a finire nel fosso, oppure era rimasto in panne.
E i cantonieri di oggi ? Indubbiamente esisteranno ancora con una nuova veste professionale e funzioni diverse. Ma chi ha conosciuto quelli di «qualche» anno fa è romanticamente affezionato alla vecchia figura del cantoniere in divisa, con il suo berretto con tanto di visiera ed il badile in mano il quale, a bordo della bici (alla bassa) e della moto (in montagna), curava le strade del suo cantone come Triestino Stocchi («Triést»), mitico capo- cantoniere di Palanzano che, a bordo del suo «Guzzino» rosso, «pattugliava» giornalmente la «Massese» fino al Passo del Lagastrello.
Erano tempi in cui telefoni cellulari e C.B. non esistevano ed anche i camionisti dovevano fare quello che potevano, il più delle volte, appoggiandosi appunto ai cantonieri. Le ultime generazioni di Tir assomigliano sempre di più ad astronavi aliene, (nemmeno lontane parenti degli sbuffanti camion a rimorchio che si inerpicavano sui tornanti della Cisa), la velocità e la fretta la fanno da padrone, in caso di bisogno si digita il cellulare e, in un batter d’occhio, dalla terra o dal cielo arrivano i soccorsi. E’ sempre stata dura la vita del camionista costretto, tempi addietro, a dormire in cuccette nella cabina del camion con freddi polari e caldi torridi, lavarsi al mattino, magari, utilizzando la pompa d’acqua di un distributore di benzina, improvvisarsi meccanico e riparare, come poteva, la parte danneggiata del motore del suo «bestione».
Ma, una cosa, alla quale il camionista teneva, era il pranzo che doveva esser buono ed abbondante. Non a caso nacque la leggenda delle «trattorie dei camionisti» dove la tradizione vuole si mangi divinamente, abbondantemente e a buon prezzo. Una frase molto comune tra i parmigiani, notoriamente amanti del buon cibo, è proprio questa: «s' at vól magnär bén e bondant e pagär mìga bombén sérca 'n tratorja indó gh'è férom di càmjon».
A tale proposito, per i camionisti di ieri, erano tappe d’obbligo alcune trattorie tipiche disseminate sulla Via Emilia come la Romagnola di Ponte Taro, un altro paio a San Prospero, la mitica trattoria Romanini di Parola dove le portate erano costituite, come ricorda un vecchio camionista: «da badilädi äd lazagni e buzéca e fètti äd codghén chi parävon ródi äd ’na Lambrètta» per non parlare delle trattorie montanare a cavallo del Passo della Cisa.
I camionisti, per sdrammatizzare le insidie del loro mestiere, se in un’ osteria avevano trovato una buona accoglienza, in tutti sensi, da parte della locandiera, issavano, sul cassone del camion, una vecchia scopa. Un’ indicazione per il collega che sopraggiungeva dal lato opposto della strada il quale, nella prima osteria che avrebbe incontrato, si sarebbe trovato a proprio agio. La «Stradäla» rappresentava una spina nel fianco specie per i camionisti che, proprio tutto in regola, non lo avevano mai a causa di quel mestieraccio che, a volte, imponeva loro scelte coraggiose ma azzardate per la vita come, ad esempio, le gomme non sempre in buone condizioni.
Se sulla strada con gli agenti della «Stradale», ovviamente , c’era un po' di guerra, la pace, anche con loro, era siglata magari in un «angurjäia», come quelle che sorgevano sullo Stradone, dove camionisti e agenti della «Stradäla», nelle nottate estive, si fermavano per assaporare un po' di fresco ed una bella fetta di anguria che addolciva, oltre che il palato, anche gli animi facendo sentire, agenti e camionisti, protagonisti, sulla strada, del duro e faticoso film della vita.