poesia
Paolo Lagazzi: Bertolucci e il suo magico mondo
Una delle più singolari virtù che «La casa del poeta» di Paolo Lagazzi trasmette come un dono (o come un contagio) è quella di consegnare al lettore la miracolosa sostanza pulviscolare - insieme palpabile e diafana, seducente e ipnotica - di un tempo perenne, ciclico. Soprattutto adesso che il volume, scritto dal critico parmigiano per raccontare il senso profondo di quella parte della propria vita dedicata alla poesia di Attilio Bertolucci, fa il suo ritorno sugli scaffali dopo 17 anni dalla sua prima apparizione garzantiana.
«Assenza/più acuta presenza», scriveva Attilio, ed ecco qui, nella sua connotazione forse più vera, il senso spesso frainteso di quel distico divenuto proverbiale: l’idea di non andarsene mai, di un poeta. Rimanere bensì, nello scorrere eterno del tutto, molecola fluttuante a cavallo del dardo scagliato dall’arco nel flusso dell’essere. E così, la ciclicità del tempo a cui accennavo non è l’anello che salda l’inizio e la fine, ma continuo ritorno, durata, identità di assenza e presenza. «La casa del poeta» (La nave di Teseo, pag. 240, euro 20; prefazione di Emanuele Trevi) è il racconto, o, meglio, l’epifania letteraria di quella che per Lagazzi è stata esperienza totale: 24 estati a Casarola con Attilio Bertolucci.
Stagioni che, nella contrazione del tempo interiore - la stessa di cui parla Mann ne «La montagna incantata» - sembrano condensarsi in una sola, nella luce dell’«ora calma» e del «dolce sole», restituite in quella speciale alchimia tra indagine critica e rêverie che segna l’atteggiamento critico di Lagazzi, una disposizione a metà tra la novizia curiosità dell’iniziato ai misteri bertolucciani - soprattutto nei primi tempi, ma via via anche in seguito, del resto, sebbene in modi sempre diversi - e l’abbandonarsi fiducioso e grato di un figlio adottivo. Si ha l’impressione che il critico-scrittore (uno degli ultimi di quella blasonata stirpe che ancora custodisce le formule magiche del linguaggio e dello stile secondo ricette divenute vieppiù clandestine) - Lagazzi, dicevo - superati i settant’anni di slancio, sia tornato anzitempo da la salita al suo «Monte Ventoso» (o da l’escursione alle «Sorgenti del Cinghio», convinto peraltro dall’«astuzia del poeta»), e abbia ritrovato insieme a lui la rassicurante casa «intonacata di luce». E nel ritrovarla, abbia sentito l’esigenza di riproporne il racconto intimo e garbato, e con esso il senso diffuso di un abitare dilatato, che dalle pietre della dimora di Casarola, emani nella vita agreste circostante le proprie vibrazioni: una magia bianca, consumata «al fuoco tranquillo dei giorni», un’aura d’«oro corrusco», che s’apprende alle gaggie, alle zolle, al «secco odore di stalla», all’erbe dei sentieri, ai castagni giganti e alle vette smussate. Una terra di cui Attilio è il «feudatario mite», arroccato nella chiostra dei suoi versi. Ma non è semplice ristampa, questa. Lagazzi è variamente intervenuto. Il testo è stato in parte rivisto. Al contributo prezioso di Bernardo, che fu prefazione alla prima edizione, si affianca ora uno scritto altrettanto prezioso di Giuseppe, mentre a bilanciare la sagace nota introduttiva di Trevi compare un altro testo finale di Lagazzi medesimo. E sono pagine magistralmente scritte, tutte quante; l’andamento sognante, la struttura stessa della nuova edizione, con le giunte e le pennellate di ritocco, restituiscono un nuovo equilibrio.
Lagazzi non è uno di quei critici dalla personalità dirompente e assertiva, calamitica e volitiva, come, che so, Cesare Garboli, il quale, parlando di un autore, lo attrae a sé, tanto da trasformarlo sensibilmente. Non si può essere toccati da Garboli senza che rimangano impresse sulla pelle della propria opera le impronte a fuoco di un tocco possente. Seguace di Hermes più che di Marte o Atena, Lagazzi esercita invece con maestria e caparbietà inarrivabili quel tipo di critica mimetica che avviluppa l’autore come il rampicante la pianta. Ne sugge il succo, la linfa, senza fretta.
Ne assapora le increspature sottili dello stile. È lui a trasformarsi ad adattarsi, non l’autore. Ecco allora che dalle volute larghe e prensili di quel verde contatto germoglian fiorescenze dai dalle emanazioni intense, fumi di pozione magica. Il veicolo, naturalmente, è la scrittura, la porosa epidermide del significante che permette l’osmosi tra autore e critico. È da questo incontro che scaturisce la scrittura sensibile e rapinosa di Lagazzi. E così, al cospetto di Attilio dal lontano 1973, il giovane critico, mosso da principio non più che dall’idea di una tesi di laurea, si è progressivamente introdotto in un mondo (“mi sentii accettato”), non solo letterario, ma anche topografico, climatico, familiare. Fatto di consuetudini, di riti. Solo facendone discretamente ma totalmente parte (fin quasi all’annullamento del sé) ha potuto, nel tempo d’un eterno ritorno a Casarola - che ancora dura nelle forme d’un periodico pellegrinaggio d’adepti - rinnovare il dialogo fecondo con il Poeta, svelarne i recessi più segreti e illuminarli con un frammento della fiammella sottratta a Bachelard nel guizzo d’un rapido trucco illusionistico.
Persino i percorsi dei sentieri e delle stanze, gli arredi hanno un senso per l’assiduo e infatuato visitatore di Casarola. Lagazzi per una operazione del genere, che è autenticamente ed etimologicamente bio-grafica non poteva che affidarsi ad una scrittura che fosse disposta a trascorrere i luoghi codificati dei generi letterari, senza tuttavia rimanere prigioniera di nessuno di essi. Ecco allora sfiorare la prosa epistolare, narrativa, descrittiva, evocativa, riflessiva, la citazione del verso, il diario, il memoriale, senza che alcuno ambisca a prevalere, confondendosi sino a rimanere incredibilmente mimetizzati. Un libro che sembra scritto in trance, tra i più intimi e rivelatori che abbia mai letto.