cultura
Il calcio, il Tour, le passioni: l'alfabeto di Gianni Mura
Sono cinque anni che Gianni Mura se n’è andato, lasciando un esercito di lettori orfani. Restano le cose che ha scritto, che vale la pena di leggere e rileggere, e un testamento morale che ha ben presente chiunque abbia fatto un bel pezzo di strada insieme a lui. Un testamento fatto di umanità, di generosità verso il prossimo e verso i lettori, di ribellione ai prepotenti, di grande senso etico, sempre. Mancano i suoi articoli, il suo modo (unico, godibilissimo) di raccontare le partite di calcio e le tappe del Tour e i personaggi grandi e piccoli dello sport (e non solo). Mancano le sue invenzioni lessicali, gli anagrammi, i giochi di parole, le invettive, le recensioni dei ristoranti e dei vini. Proviamo a raccontare l’“universo Mura” attraverso un suo personalissimo alfabeto.
Anagrammi. Una specialità della casa. Da funambolo della parola, si divertiva a prendere un nome e un cognome e a comporre poesie nelle quali ogni verso era un anagramma del personaggio. Ottantotto versi per Mario Pescante, giusto per gradire (a mo’ di esempio, la prima quartina: «Compare intesa / Premia contesa / Campare onesti / Scatena premio»). Pubblicava gli anagrammi su “Satyricon”, l’inserto domenicale di «Repubblica», oppure li sfornava per il piacere di farli e, semmai, di condividerli con gli amici. L’anagramma di cui andava più fiero, quello per Karol Wojtyla (scritto ovviamente con lettere italiane): l’alto vicario.
Brera, Gianni. Lo ha amato da lettore, divorandosi i suoi articoli. Poi studiato come un classico quando ha cominciato la professione. Da collega ne è diventato amico, oltre che compagno di un numero infinito di trasferte e cene. Ma ha sempre rifiutato l’“etichetta” di erede, per rispetto. Certo, avevano tante cose in comune. Sopra a tutte, la generosità verso il lettore. Ha scritto Mura, in morte di Brera (il pezzo più bello della sua carriera): «Ma questo oggi ti devo: la coscienza che non si può essere avari, nella vita e nel mestiere, che bisogna spendersi, meglio dieci righe in più che dieci in meno, semmai qualcuno le taglierà. Meglio un’ora in più con gli amici che un’ora in meno. Meglio il fiotto che la goccia. Meglio il rosso che il bianco. Meglio la sincerità, anche quando può far male, che la reticenza o la bugia». C’è tutto Brera, in poche righe. E tutto Mura.
Calcio e ciclismo, i due sport di cui ha scritto per oltre mezzo secolo. Il calcio era il lavoro, e negli ultimi anni gli usciva dagli occhi, il ciclismo l’evasione, quasi una vacanza. Ciclismo uguale Tour de France, perché il Giro si corre quando il campionato di calcio non è ancora finito, e quindi era impossibile per lui seguirlo da inviato.
Due platani, la trattoria di Coloreto che aveva nel cuore. «Miglior cena del 2019», ha sentenziato nei suoi tradizionali “cento nomi” (e voti) di fine anno – un appuntamento fisso di «Repubblica» – pochi mesi prima di lasciarci. Una “medaglia” di cui Giancarlo Tavani va comprensibilmente molto fiero. Merito anche suo, per aver stappato, a fine cena, un Barolo di Cappellano. Un grande rosso è il miglior modo di concludere una serata, ci ha insegnato Mura.
Équipe, il quotidiano sportivo francese. Parlava e scriveva un ottimo francese. Al punto che, quando ha interrotto la collaborazione, ha ricevuto una lettera affettuosissima di Jacques Goddet, leggendario fondatore del quotidiano e patron del Tour de France, che si diceva molto dispiaciuto, spiegando che gli stenografi lo avrebbero rimpianto, perché era l’unico che dettava in buon francese, e per il quale non c’era bisogno di riscrivere i pezzi.
Fedez-Ferragni, coppia non propriamente amata. Questa la chiusa (immortale) di una sua rubrica domenicale del settembre 2018: «Infine, a Noto, matrimonio tra un’influencer e un rapper. Impensabile trent’anni fa, questi mestieri non esistevano e nessuno ne sentiva la mancanza».
Gius, Paola. La dolcissima moglie. L’ha conosciuta nel 1971, quando è stato inviato a seguire la prima edizione della Marcialonga, la più celebre competizione di sci di fondo. Lei faceva l’interprete, lui è rimasto folgorato: tanto che, alla festa organizzata alla fine della manifestazione, le ha chiesto di ballare un lento. E, all’improvviso: “Ma tu mi sposeresti?”. “Sei pazzo”. Ha avuto ragione lui: si sono sposati e voluti sempre un gran bene. Hanno firmato insieme, per una trentina d’anni, la rubrica Mangia e bevi sul «Venerdì» di «Repubblica»: recensioni di ristoranti e di vini. Mura aveva un gran naso, oltre a una memoria prodigiosa (per cantine, vitigni, cru, annate di vendemmia), e Paola gli era perfino superiore. Come recensore di ristoranti e trattorie, amava scovare posti non ancora famosi e tantomeno stellati. Prenotava sotto falso nome (per non generare ansia al cuoco); spesso, con lui e Paola, andava anche una coppia di amici. Tra i più assidui, Vittorio Testa e la moglie Titti, amici di una vita e vicini di casa dei coniugi Mura (oltre che colleghi, Gianni e Vittorio). Metteva la sua competenza al servizio del lettore, senza la puzza sotto il naso di troppi critici: niente voti, se si trovava bene segnalava il locale al lettore (e quelli più “allenati” capivano il livello di gradimento dal tono usato nell’articolo); se mangiava male, la punizione era non scriverne. Autorevolezza e popolarità di Mura “pesavano” parecchio: spesso, dopo l’uscita della recensione, nel locale non si trovava posto per mesi.
Hi tech. Ah, la tecnologia, questa sconosciuta: e, soprattutto, temuta. Con l’avvento dei computer ha accettato di usare la posta elettronica (ma per gli allegati aveva spesso bisogno di un ragazzo di bottega), ma nulla di più. E, da inviato, è sempre rimasto fedele alla portatile Olivetti. Al Tour, i colleghi lo guardavano come un sopravvissuto, qualche inviato gli chiedeva un’intervista. A chi gli poneva il dubbio «non crede di disturbare i colleghi, con il ticchettio dei tasti?», rispondeva prontamente: «E se foste voi, a disturbarmi con il silenzio della vostra tastiera?».
Ischia e Iseo (lago), i due posti del cuore. Monte Isola il buen retiro, Ischia la meta preferita di tante vacanze con Paola. In particolare la spiaggia dei Maronti, anche perché lì c’è il ristorante “Da Ida” di Giovanni Pesce, diventato negli anni uno degli amici più cari. Grandi piatti e grande cantina. In aggiunta: i cartoni di vino che Gianni e Paola caricavano nel baule dell’auto prima di mettersi in viaggio.
Libri. Il primo è un libro di poesie, Parole per (Milano, Artis, 1969), stampato a proprie spese dal direttore della «Gazzetta dello Sport» Gualtiero Zanetti in segno di stima («Sempre meglio che darti un premio in busta paga», gli ha detto con affettuosa ruvidezza). Sessanta pagine, cinquantadue poesie, seicento copie distribuite agli amici. Brera scriverà del Mura poeta (su «Repubblica», 17 aprile 1987), non prima di aver definito il collega «di gran lunga il migliore dei giovani giornalisti italiani»: «Per aver motivo di parlarne, ho finto di sfotterlo con un epigramma abbastanza grossolano: “Giovanni Mura / scrive ancora sonetti / Poiché è un bravo figlio / voglio dargli un consiglio: / Giovanni Mura, smetti”. In realtà era bene continuasse, e l’ha fatto senza più concedersi alle fatue lusinghe dell’endecasillabo. Però è indubbio che rimanga uno dei pochissimi poeti capaci di comporre un verso autentico. Lo ricordo, eccolo: “Per la verde ferita dei tuoi occhi”».
Dopo l’esperienza giovanile, ha pubblicato solo a 67 anni il suo primo romanzo, Giallo su giallo (Milano, Feltrinelli, 2007), convinto che uscissero troppi libri di giornalisti dei quali si sarebbe tranquillamente potuto fare a meno: ma alla fine ha ceduto al lungo e insistente corteggiamento di Carlo Feltrinelli. È un giallo, ambientato al Tour per sentirsi a proprio agio per l’esordio da narratore. Sono seguiti La fiamma rossa: Storie e strade dei miei Tour, a cura di Simone Barillari (Roma, minimum fax, 2008); Ischia (Milano, Feltrinelli, 2012); Non gioco più, me ne vado: Gregari e campioni, coppe e bidoni, a cura di Andrea Gentile e Aurelio Pino (Milano, il Saggiatore, 2013); Tanti amori: Conversazioni con Marco Manzoni (Milano, Feltrinelli, 2013); Non c’è gusto: Tutto quello che dovresti sapere prima di scegliere un ristorante (Roma, minimum fax, 2015); Confesso che ho stonato (Milano, Skira, 2017). Dopo la sua
morte, sono usciti l’affettuoso tributo Per Gianni Mura: Saggi, ricordi, testimonianze, a cura di Adalberto Scemma (San Giovanni Lupatolo, Zerotre, 2021) e l’antologia Il calcio di una volta (Milano, il Saggiatore, 2024).
Mnemoniche. Il passatempo preferito, la gara di memoria con cui finiva spesso le cene con amici. Mura era pressoché imbattibile. L’argomento poteva essere calciatori stranieri che iniziano per F, ciclisti stranieri con la lettera C, canzoni di Enzo Jannacci, o titoli di film che includono un animale (Toro scatenato, Un pesce di nome Wanda, eccetera), o mille altri spunti. Era talmente forte che vinceva quasi sempre anche sfide uno contro quattro, cinque, o più. Bruno Pizzul ricordava di essere stato battuto in una mnemonica sui paesi del Friuli che finiscono con una consonante.
Nebbiolo. Uno dei vitigni che amava di più, in tutte le sue declinazioni. «Il vino è rosso, tranne simpatiche eccezioni», un suo motto proverbiale. Un Nebbiolo in purezza è il vino che gli ha dedicato Gigi Garanzini, amico di sempre e compagno di mille avventure, con la moglie Maria Bianucci (scomparsa tre anni fa). Giornalisti di lungo corso e vigneron per passione, hanno ideato e iniziato a produrre a Monforte d’Alba (con la competentissima complicità di Claudio Conterno e Guido Fantino) un vino in memoria di Gianni. Geniale l’idea del nome, Suiveur (letteralmente, il seguitore; nel gergo del ciclismo, l'inviato al Tour de France), poetica e commovente la dedica stampata sull’etichetta: «A Gianni Mura, a partite, nottate, alla sua douce France illuminata dal Tour». Poche bottiglie prodotte, ma distribuite nei posti giusti, come sarebbe piaciuto a Gianni: dalle nostre parti, non manca mai nella carta di Ivan Albertelli (“Hostaria da Ivan”, a Fontanelle), come omaggio all’amicizia con Gianni e con Gigi e in ricordo di tante zingarate.
Ottobre, 9. La data di nascita e, da quando Gianni non c’è più, quella di una serata in suo onore. A tavola, ovvio: alternativamente, nei due locali di Milano dove si sentiva a casa: all’“Osteria del treno” e “al Vecchio porco”. Bellissima iniziativa lanciata dai colleghi di «Repubblica», in primis Emanuela Audisio e Giuseppe Smorto, alla quale non mancano mai gli amici veri: colleghi (in ordine sparso, Gigi Garanzini, Roberto Beccantini, Fabrizio Ravelli, Antonio Dipollina, Michele Serra, Luigi Bolognini, Aligi Pontani, Piero Colaprico), ex campioni e allenatori, non solo di calcio (Eraldo Pecci, Ottavio Bianchi, Julio Velasco), cantautori (Vinicio Capossela, Ricky Gianco), Carlo Feltrinelli, gli amici più cari che arrivano anche da molto lontano.
Processo del lunedì. Mura andava raramente in tv, non si sentiva a suo agio. Ma con una indimenticabile eccezione: l’edizione 1995/’96 del Processo del lunedì, condotto da Gigi Garanzini. Gli fu affidata quando Biscardi se ne andò dalla Rai, che mantenne però i diritti sul titolo della trasmissione. Garanzini inventò il format più copiato della storia della televisione: tovaglia a quadretti, bicchieri da vino come si deve, qualche bottiglia e qualcosa da spiluccare. In più, fumo libero. Il programma andava in onda dopo la Domenica Sportiva, poco oltre la mezzanotte (perché, in omaggio al titolo, fosse già lunedì). Mura era tra gli ospiti che l’amico e collega invitava più spesso, con Enzo Bearzot, Giovanni Galeone e Sandro Ciotti. Programma memorabile, che tutti i calciofili ricordano con nostalgia. Indimenticabile la puntata in cui fu invitato Giorgio Pedraneschi, che si presentò in studio con un culatello e lo affettò in diretta.
Quai des Orfèvres, come Simenon chiamava il Palazzo di giustizia di Parigi nei romanzi del commissario Maigret. Lettore vorace di gialli (dai classici ai contemporanei), Mura adorava Maigret: e gli ha reso omaggio quando ha inventato il protagonista per i suoi gialli (Giallo su giallo, Ischia), chiamandolo Magrite, che è l’anagramma del commissario di Simenon e che al tempo stesso ricorda, come suono, il pittore surrealista.
Ritratti e interviste. Un’altra specialità di Mura. Rileggere l’intervista a Boninsegna per i suoi settant’anni, quella a Trapattoni per i sessanta, o quella a «Cuore matto» Bitossi per i settanta. Capolavori di giornalismo. Come tanti ritratti di campioni, come i «coccodrilli», come si chiamano in gergo i pezzi scritti in morte di un personaggio. Del pezzo su pezzo su Brera si è detto. Quello dedicato a Pantani è straordinario, specie se si considera che la notizia della morte è arrivata nelle redazioni poco prima delle undici di sera. Era la notte di San Valentino, Gianni e Paola stavano festeggiando in un ristorante di Firenze. Raggiunto dai colleghi, Mura ha chiesto qualche minuto per riordinare le idee: poi ha dettato «a braccio» (cioè, senza scrivere una riga) un articolo memorabile.
Sette giorni di cattivi pensieri. La rubrica più longeva (dal settembre 1983 al 2020 fanno quasi quarant’anni) e quella dove spesso Mura ha dato il meglio di sé, commentando i fatti della settimana di sport, politica e costume, dispensando voti e giudizi tranchant. Non si ricorda una sufficienza per Berlusconi e per Mourinho, giusto per citare due personaggi non proprio amati. I lettori fedelissimi non si sono mai persi una puntata, tanti leggevano «Repubblica» alla domenica per i cattivi pensieri.
Tour de France. Il primo a 22 anni, nel 1967, in “squadra” con Bruno Raschi, Luigi Gianoli e Rino Negri, nientemeno. A loro è stato sempre grato per avergli lasciato le briglie sciolte, per le interviste, i pezzi di colore, i profili dei gregari che gli venivano assegnati. Dopo i primi tre Tour da giovane professionista, è tornato suiveur per «Repubblica» dal 1991 al 2019. La tecnica che ha affinato in tanti anni è l’«effetto spugna», che è un modo di interpretare il giornalismo, nel senso di assorbire tutto ciò che sta intorno all’evento, o al personaggio, di cui si scrive. Tradotto: se la tappa è memorabile, tanta cronaca e interpretazione tecnico-tattica e poco contorno. Altrimenti, poche righe sulla corsa e spazio al paesaggio, al vino che ha bevuto la sera prima, o alla trattoria che serve il miglior cassoulet della zona.
Umanità. La dote più grande. Prima ancora che un grande giornalista e un fuoriclasse della scrittura, era un campione di umanità e di generosità, nella vita e nel lavoro. Stava sempre dalla parte degli ultimi. Certo, quando gli prudevano i polpastrelli, sapeva usare le parole come sciabolate, all’occorrenza, soprattutto se doveva rivolgersi a un prepotente.
Veronelli, Luigi, detto Gino. O Sua Nasità, il soprannome coniato da Mura, o ancora Le lion ivrogne, il leone ubriacone, un anagramma tra i meglio riusciti in assoluto (piaciuto molto al diretto interessato, tanto che l’ha adottato come titolo di una sua rubrica per la rivista «Il Vino»). Il maestro, per vini e dintorni. Si sono conosciuti a «Epoca», Veronelli ha capito subito che il giovane aveva stoffa, naso e cultura. Gli ha chiesto quanto guadagnava e gli ha offerto il triplo, per seguirlo e diventare il suo delfino, mettendogli a disposizione la sua cantina, la sua biblioteca, la sua esperienza. Metafora (azzeccatissima) di Mura: «Era come se Pelè m’avesse invitato a fare qualche palleggio con lui al Maracanà». Ma, dopo averci pensato a lungo, ha declinato: troppo innamorato del giornalismo e della sua utilità sociale.
Zanetti, Gualtiero. Il primo direttore, alla «Gazzetta dello Sport». Mura è entrato per caso e quasi controvoglia, lui che, all’epoca del liceo, aveva ambizioni letterarie altissime e scriveva recensioni di libri e di film usando un linguaggio per iniziati. E che considerava i giornalisti sportivi l’ultimo gradino tra l’uomo e la scimmia. La compagna di classe più brava, che però lui batteva sempre nei compiti di italiano scritto, era la figlia del direttore amministrativo della “rosea”. «Cercano dei giovani – gli ha detto dopo la maturità – ti interessa provare?». Ha studiato i grandi, passando ore in archivio, e capito in fretta che c’erano anche giornalisti sportivi molto colti e molto bravi. Ha imparato il mestiere in fretta. Zanetti lo ha ripreso solo una volta, per il primo pezzo in assoluto dopo tante giornate dedicate a scrivere brevi e passare articoli di altri. Per ansia da prestazione, aveva fatto un “simil Brera”, mettendoci dentro il dialetto, il latino e perfino il tedesco. Zanetti lo ha chiamato nel suo ufficio e accolto «tenendo l’articolo con due dita, molto lontano da sé, come fosse un topo morto» (descrizione dello stesso Mura). «Per me puoi arrotolarlo e metterlo dove dico io». Lo ha riscritto ed è uscito senza che fosse toccata una virgola. Grande lezione: non ha mai più dovuto riscrivere un pezzo.
Dopo la «Gazzetta dello Sport», ha lavorato al «Corriere d’informazione», a «Epoca», all’«Occhio» e poi a «Repubblica» (dal ’76 come collaboratore, dall’83 come inviato speciale). Ha anche fondato e diretto «E - il mensile», iniziativa editoriale di Emergency durata troppo poco (e la cosa ha seccato non poco Mura e raffreddato il rapporto di amicizia storico che aveva con Gino Strada) e collaborato per anni a «Scarp de’ tenis», giornale di strada a diffusione nazionale. Il direttore gli aveva proposto con un’email educatissima di tenere una rubrica, chiedendogli («con una faccia tosta che non so se lo rifarei», ha scritto raccontando l’episodio) «di scrivere “quasi gratis”». La risposta è arrivata con una telefonata: «Per voi non lavoro “quasi gratis”. Solo gratis».