Tutta Parma
Anguille, pescatori nel Po e nella Parma
Una pesca antica quella dell’anguilla che, anche nella nostra città, specie in passato, ebbe degli abili esecutori come, ad esempio, «Marién» La Franca, abilissimo «grotadór» (pescatore di pesci con le mani), «in-t-i fondón ädla Pärma», insieme al suo maestro «Trombètta». Un grande pescatore di anguille fu un benzinaio che, agli inizi degli anni Settanta, gestiva un distributore sulla strada di Vicofertile.
Persona simpaticissima, estrosa, «mat cme ‘n caval da corsa», e, per questo, gradevole fuori dagli schemi ed anche un po' tanto rivoluzionario. E, a proposito di pesca rivoluzionaria, senza tante regole, fu un maestro. Al cronista, tanti anni fa, capitò, come spettatore, di partecipare, con lui, ad un’uscita sulle acque del Po, a Zibello, per una pescata notturna di anguille. Si arrivò sul posto in una calda notte di inizio giugno durante la quale le zanzare sorvolavano i poveri umani come caccia bombardieri.
L’unica arma per combatterle era un baluginante zampirone che ben poco poteva contro quei dannati insetti che erano disturbati solo dal fumo di quelle «proletarie» «Alfa» che un altro pescatore presente sul pontile emetteva come una ciminiera. Trascorso tanto tempo da allora, anche la memoria può presentare inevitabili lacune, ma la pesca che praticava il benzinaio pare si chiamasse con i «campanél». Infatti, come detta la regola ittica, il tintinnio del campanello fissato sulla cima della canna lo fa sobbalzare: l’anguilla ha abboccato!
Nel giro di un paio d’ore il bottino fu davvero cospicuo tanto da riempire due grossi secchi di queste bisce d’acqua viscide e nere che facevano un po' senso. Terminata la pesca risalimmo in auto per fare ritorno a casa cedendo alle insistenze dell’amico che volle a tutti i costi donare al povero cronista un sacchetto di cellophane contenente qualche anguilla. Sacchetto (molto probabilmente non chiuso bene) che, appena giunto a casa, il cronista, stordito dal sonno, dal ronzare delle zanzare e dall’acre fumo delle «Alfa», depose, prima di coricarsi, nel lavello della cucina.
Al mattino fu una tragedia in quanto la domestica cominciò ad urlare rinvenendo anguille sul pavimento che annaspavano nascondendosi sotto i mobili. Fu una scena a dir poco da girone dantesco e da film dell’orrore che ebbe un epilogo a tarda mattinata quando, dopo diverse ispezioni in ogni angolo della casa, le anguille furono tutte catturate e messe in condizioni di non nuocere. Una storia singolare, questa, che si collega alla memoria e cioè quando le anguille venivano vendute vive nelle pescherie dove galleggiavano in mastelli d’acqua come pure i «pèss gat». E, a questo punto, i ricordi si fanno immagini della pescheria di via Farini, quella un tempo ubicata sotto i primi portici provenendo dallo Stradone e quella di Enzo Salati in via XXII Luglio.
Si fa presto a dire anguilla e forse anche a pescarla, ma è a cucinarla che «bizòggna ésor bón dabón» come asseriva il giornalista Angelo Martelli, indimenticato responsabile della pagina dell’agricoltura della Gazzetta di Parma nonché gran gourmé dei piatti della cucina del Po, anguilla compresa.
A questo punto, ancora sull’onda dei ricordi, non si può non citare la «cattedrale» dell’anguilla che, negli anni Sessanta ed oltre, si poteva gustare, cucinata in diverse versioni, e cioè dorata ed in umido con i piselli al mitico «Cavallino Bianco» che si specchiava sul Po di Polesine ospiti di Marcello, Enrica ed Emilia Spigaroli, coloro che diedero vita, con la collaborazione dei figli Pier Luigi, Massimo e Luciano, alla «leggenda Spigaroli», eccellenza della nostra cucina nel mondo ma che, anche a quei tempi, conquistò con i «piatti del Buon Ricordo» un grande successo con l’inimitabile «anguilla dorata».
Nella tradizione parmigiana l’anguilla marinata («miotén») sulle nostre tavole compare in modo particolare nel tempo di Natale in compagnia dei pesciolini macerati sott’aceto chiamati in gergo «pèss putana» e l’immancabile merluzzo che doveva essere cucinato alla perfezione come recita il «Lunäri» per l’anno 1818 e cioè: «ben inajà, impevrà, bsontà col gras, envojà in t’una carta» per poi cuocerlo «sotto al bras» (cioè sotto le brace).
Oltre la pesca professionale dei pescatori del Po, che, unitamente ai barcaioli, conoscevano le acque del «grande fiume» meglio delle loro tasche, esisteva un altro tipo di pesca più rudimentale, ma non per questo meno suggestiva. «L’andär par rani», infatti, era una pratica seguita da molta gente nel periodo delle lucciole e del raccolto. Nei fossi, nelle notti con luna e senza vento, muniti di lampade ad acetilene (acqua e carburo) i «ranär» abbagliavano le prede le quali si facevano acchiappare senza opporre la minima resistenza. Le rane venivano mangiate, ma anche vendute. E allora, al mattino di buon’ora, uomini e donne, a bordo di sgangherate biciclette, giungevano in città per vendere la loro preziosa merce avvolta in foglie di fico e custodita in una cassetta di legno posta dietro il sellino.
Le rane, minuziosamente pelate ed infilate in un bastoncino, venivano vendute per ricavarne piatti davvero prelibati come suggerisce Martelli (nel suo libro «La cucina povera in Emilia Romagna», Marino Solfanelli Editore 1989): «Rane dorate, fritte, in umido, in brodo, oppure con il riso». Altro piatto di estrazione popolare, a base di pesce, era il baccalà («marluss») con la polenta che si poteva gustare sia in casa che all’osteria, la carpa sott’aceto con zucchini e foglie di salvia, frittura varia, mentre, un posto di tutto rilievo lo occupavano i gamberi di fiume (davvero prelibati) dalla carne rosata e dal sapore dolciastro, lontano ricordo degli studenti sessantottini, sia di destra che di sinistra, che li gustavano nell’osteria di Casale di Felino dopo averli pescati «in-t-la Bagànsa». Anche le risaie erano fonte di pesca sia in estate che in inverno.
Nel periodo estivo, infatti, le mondine erano assalite da eserciti di rane e anguille, mentre in inverno, previo pagamento di una gabella («pendìssi») corrisposta al padrone (che consisteva solitamente in uova, in inverno assai rare), il contadino poteva infrangere il ghiaccio e pescare non più di due carpe al giorno. In città, il mercato più importante del pesce, tra il Settecento e l’Ottocento, era nell’attuale piazzale Cesare Battisti («Pescherja Vécja») dove si poteva acquistare pesce fresco, non certamente di mare, ma comunque non inquinato. Ovviamente anguille comprese.