Orizzonti letterari
L'ultima estate di Pasolini Il poeta del tempo infinito
«Quelle notti erano notti estive, e il suo amore per l’estate fu forse il sentimento più forte della sua vita». Si
tratta di un verso
breve che Pier Paolo Pasolini, riferendosi a sé defunto, scrisse nel 1968. A significare il suo amore per l’estate, s’intende, anche perché sosteneva di contare a estati, non a anni, il tempo; magari trascorse nella sua casa tra le sabbiose dune di Sabaudia, acquistata e condivisa con l’amico Alberto Moravia, e dove i due incontravano altri scrittori, scrittrici, attori e registi. Ma l’ultima «estate» del più grande intellettuale italiano del Novecento (quantomeno lo scrittore italiano più studiato, con decine di volumi su di lui), fu quella che finì improvvisamente col taglio netto del suo destino cinquant’anni fa, tra il 1° e il 2 novembre 1975. Proprio di notte, tra l’altro, come il primo verso di quella poesia. E proprio oggi 21 settembre finisce questa, di estate.
Dunque ci stiamo avvicinando alla ricorrenza dell’improvviso troncamento della sua vita, ancora oggi non sappiamo quanto prevedibile e di conseguenza evitabile. Di certo fu una morte che turbò e ancora turba molti. Gli stessi si chiesero e si chiedono se, al di là dei valori umani sconsacrati dalla viltà del gesto e dalla pietà del sacrificio, non vi fosse il segnale, maturo e inequivocabile, di una nuova «guerra» tra le persone, non dichiarata, ma in atto. Una guerra sottile, per quanto possa farsi esile e fragile una guerra, che come due fiammiferi accesi e avvicinati aveva messo l’uomo contro l’uomo, infiammando e incenerendo entrambi. Distruggendosi reciprocamente. Per un delitto non solo fisico, ma soprattutto d’animo. Domanda, oggi come allora, a cui è difficile rispondere, o che forse già in questo scritto e in questa lettura, tenta di non lasciare incompiuto il punto interrogativo.
Pasolini era un poeta vero. Testimone inquieto e inquietante. Faceva opinione, disturbava. Era un moralista? C’è chi lo pensa. Ma anche se il suo maestro fosse stato Michel de Montaigne, il grande filosofo moralista del Cinquecento, pioniere dell'antropologia filosofica, la fatica di fare uscire - con ogni mezzo - la mente dal sonno e dalle catene, non resta un monito esemplare e privo d’appello?
La società da lui ipotizzata e temuta, la società dell’omologazione culturale, del consumismo, si stava in parte già attuando dopo il boom economico. Il suo sguardo ci mostra l’attualità della sua analisi intellettuale, politica, sociale ed economica. Non fece in tempo a vedere a compimento, o ci mise solo il primo e definitivo sguardo, ciò che i suoi libri, i suoi film, i suoi scritti, le sue interviste dimostravano. Ammonirete: cose trite e ritrite, abusate da chi piace parlare di PPP. Avete ragione: soprattutto dopo l’avvento dei social.
Noi siamo «nella morte» di quest’uomo. Che d’altronde e banalmente era proprio e solo un uomo. Un uomo sofferente per quella trepida inconsistenza delle cose che i suoi occhi vedevano, la lucida analisi di ciò che siamo e anche che non siamo. Un essere solo - sì, solo, o quasi - al centro di falsi problemi, dell’imbecillità, dell’ignoranza. Pasolini proiettava un’immagine che ogni tanto doveva smorzare quando la sentiva troppo caricata di luoghi comuni, di pubblicità non cercata, dovuta a quella forza di raggiungere tante identità, in cui ognuno si specchiava e, crediamo, si specchia. Abbiamo costruito (anche qui, ora) un’immagine codificata, quasi accertata, di ciò che era - che è! - Pier Paolo Pasolini.
Ma neppure questo è del tutto vero: non sempre i servi sono buoni, non sempre gli umili sono ingenui o i padroni sono cattivi. A vittime e carnefici non è impedito di sostituirsi o modificarsi i ruoli, peggiorandoli o migliorandoli (che poi, chi è quel giudice che può sentenziare cosa è giusto e cosa è sbagliato? Ma qui ci addentreremmo in una foresta difficile da attraversare). Torniamo a noi: era questo ciò che lo faceva volare, la sua libertà di pensiero, il saper cambiare prospettiva. Così prendeva fiato e parlava e scriveva per chi non aveva voce, e per chi non la trovava. Resistendo alla tentazione di essere integrato, appiattito (cosa che avvenne davvero, macabramente), rischiando però di essere strumentalizzato e contrastato, come è accaduto e accade, con false manipolazioni storiche e ideologiche.
Lo scrittore della sofferenza che alcuna politica, alcun potere, alcun «argent» avrebbe potuto attenuare. Quando fu ucciso, massacrato, fu propria questa la percezione che affiorò con forza: il suo cadavere, di cui venne fatto scempio, spuntò come un fiore tra la sabbia di Ostia. Come può un germoglio svilupparsi tra le macerie?
Ecco perché la sua morte non andrebbe vista come un fatto di cronaca, o soltanto come un fatto di cronaca. Dovrebbe stimolare il dubbio sulla nostra complicità, sulla nostra volontà, o assenza di volontà, di salvaguardare l’altro, senza destare il sospetto di essere qualificati diversamente: disumani.
Era intollerante, Pasolini. E la sua intolleranza indicava che la «Saison en enfere» di Arthur Rimbaud doveva concludersi con una ripida discesa nel Regno dei Morti, secondo quel filo rosso tracciato da Ulisse, Enea, Dante, che collega il tempo infinito del passato a quello infinito del futuro.
Pier Paolo Pasolini ha tentato di tutto pur di salvarsi e di salvarci, ma nemmeno la poesia gli è stata d’aiuto.