TRA STORIA E MUSICA
Quando il Regio cambiò nome
Stasera? Stasera «I dan l’Otello a pressi popolär»... Avranno risuonato nelle vie e nelle piazze di Parma i versi della bellissima poesia di Renzo Pezzani in quel triste dicembre 1943? E i parmigiani, pochi forse, si saranno chiesti come mai era sparito dal cartellone il nome del loro amato Regio, cambiato come d’incanto in Teatro Giuseppe Verdi? E saranno stati tutti contenti di andare alla prima recita, il giorno di Natale, recita «in onore delle forze armate italo-germaniche»?
Queste domande, che ci poniamo oggi di fronte agli avvisi teatrali dell’epoca, meritano qualche risposta. Il 18 novembre 1943 la «Gazzetta di Parma» riportava, con un certo rilievo, la lettera firmata, ma senza il nome, titolata «Una proposta da accogliere». La lettera esordiva con un’affermazione perentoria: «La Monarchia ha indubbiamente cessato d’esistere in Italia». Eh, certo, siamo sotto la Repubblica Sociale, la Repubblica di Salò, dopo i guasti dell’8 settembre. Quindi, togliere la parola Regio dal nostro teatro e «finalmente intitolarlo al grande genio musicale della sua terra: a Giuseppe Verdi... lo si denomini teatro nazionale... per mantenergli il carattere e l’importanza che le sue lontane e recenti tradizioni gli hanno meritato».
Questo è l’imperativo. Infine il nostro lettore auspica, e conclude, che
«prima o poi a Parma dovrà pur trovar degna sede quel Teatro Verdiano, la cui necessità artistica non ha bisogno... di essere dimostrata».
5La risposta del giornale è immediata e conviene rileggerla. «La proposta che il nostro lettore ci sottopone raccoglie certamente le approvazioni di tutta la cittadinanza, oltre, naturalmente, la nostra. Verdi è oggi più vivo che mai: egli è una bandiera, un simbolo. I canti immortali che Egli espresse (oh! la suggestione indicibile che ci infonde sempre il Va pensiero) parlano al nostro cuore coi più fieri ed ardenti accenti della speranza e della fede: sono fiammeggianti di incitamento e di maschia vigoria. Essi ci dicono: ama la tua Patria, difendila, combatti per essa... Sì, a Giuseppe Verdi cantore del Risorgimento nazionale, deve essere dedicato il nostro ex-Regio. Alle competenti autorità, la realizzazione di questa volontà popolare».
Al di là dei toni e del vocabolario tipici dell’epoca, in cui la retorica imperversava, un po’ maschilista e naturalmente bellicista, può essere di qualche interesse andare ad individuare la politica culturale del fascismo, la necessità di ricreare consenso intorno ad alcune idee forza, nello sbandamento generale, nella spaccatura sociale delle coscienze. Anche un teatro, importante eppure non certo essenziale nel quadro generale di una guerra in corso, può diventare motivo di battaglia politica, ideologica e quindi culturale. Durante gli anni del consenso, gli anni Trenta del Novecento, il fascismo aveva investito molto nella cultura, particolarmente in quella che era ritenuta peculiare della nostra tradizione, l’opera lirica. In quei «favolosi anni Trenta» si erano succedute nel nostro Regio stagioni indimenticabili, in cui cantanti come Gina Cigna, Ebe Stignani, Maria Caniglia, la giovane Magda Olivero, Tito Schipa, Francesco Merli, Galliano Masini, Carlo Galeffi, Beniamino Gigli e Aureliano Pertile, giusto per fare alcuni nomi, avevano portato il meglio presente sulle scene liriche, unitamente a direttori come Antonino Votto, Tullio Serafin o il giovane Gavazzeni.
Di quella politica fecero parte le sorprendenti e insolite Celebrazioni per il 40° anniversario della morte di Verdi, nel 1941, in piena guerra. Ma gli esiti della medesima non erano ancora compromessi.
In chiusura della stagione, che non aveva conosciuto sempre serate di livello accettabile, erano stati chiamati niente meno che Beniamino Gigli, Gino Bechi e Maria Caniglia diretti da Antonino Votto in un mirabile Ballo in Maschera. La guerra aveva poi preso la piega che conosciamo e nell’autunno del ’43 non solo un cittadino (ma dietro sembra esserci la mano delle autorità) arriva a chiedere il cambiamento del nome del teatro con la benedizione del giornale locale, ma il passo ha un immediato riscontro. Un mese dopo il cambio è fatto. Si apre la stagione e sul cartellone compare subito Teatro Comunale «Giuseppe Verdi».
Quando chi decide non deve rendere conto che a se stesso, la rapidità è un corollario. Da Nuovo Ducale Teatro a Teatro Reale e infine a Teatro Regio, più di un secolo di storia cancellati con un tratto di penna. Tuttavia il nome Verdi è di prestigio e solletica la vanità cittadina. Dopo pochi mesi, già nella stagione di Primavera, il Teatro da Comunale diventa Nazionale, secondo gli auspici o, forse più propriamente, le pressanti indicazioni dell’estensore della lettera alla «Gazzetta». Chissà cosa avrà interessato ai comuni cittadini, a quelli che avevano cominciato a imbracciare le armi in montagna, o a quelli che dovevano scappare sotto i bombardamenti? Ma Otello è pur sempre Otello, e un buon numero di parmigiani a teatro, qualunque nome abbia, nel pomeriggio di Natale ci va.
La «Gazzetta di Parma» parla di pieno successo. Nel pubblico c’è una folta rappresentanza delle forze armate, italiane e tedesche, ma anche tanto pubblico. Magnifica esecuzione, scrive il critico musicale Giuseppe Dovara. Merito precipuo del direttore parmigiano Giuseppe Podestà, ma anche di un Otello che «oggi non ha eguali» Francesco Merli; e non demeritano certo la Desdemona di Mercedes Fortunati e lo Jago di Luigi Borgonovo. Insomma una grande edizione che onora il Teatro Verdi. La cronaca scorre piena di entusiasmo: bisognava pur tenere alto il morale.
Eppure il nome Teatro Verdi non sarebbe rimasto a lungo e avrebbe seguito le sorti della guerra. Dopo il 25 aprile ’45, la prima stagione lirica è nell’autunno, con una Tosca con Pia Tassinari e Ferruccio Tagliavini, diretta da Ermanno Wolf-Ferrari. Al Teatro Regio, naturalmente. La guerra aveva lasciato macerie, ma anche tanta voglia di tornare a vivere, di voltare pagina. Di tornare a chiamare le cose con il loro nome.