L’occhio del Dragone

Il «piccione» della High Line vigila sulla New York dove spira aria di rinascita

Paololuca Barbieri Marchi

Questo è l’ultimo pezzo dell’anno. Si chiude il 2025 anche a New York, in ritardo di 6 ore ma si chiude. Si chiude con un mercato dell’arte in ripresa e un senso di speranza che questa città ciclicamente tira fuori
dal cilindro.

Dopo le elezioni di Trump, per New York sembrava finita. Squadroni dell’Ice (i volontari governativi che rastrellano la gente per strada se pensano che siano immigrati illegali) erano arrivati anche qui. Materializzatosi dai video di Tik-Tok fin dentro gli studi degli artisti.

Li abbiamo visti in azione nell’edificio del mio studio. Entrare con la forza, spaccare la porta di vetro, mettere tutti seduti per terra lungo il corridoio. Sfondare la porta di un’artista che aveva un adesivo pro-Palestina appiccicato… dicevano che nascondesse immigrati nello studio. Non c’era nessuno. Forse una soffiata del vicino, forse solo intimidazione. Era poco prima dell’estate e sembrava l’inizio della fine. Poi è arrivato l’autunno, sono cadute vecchie foglie e la città si è scrollata di dosso quest’ombra nera che la attanagliava. Ci sono state le elezioni del sindaco, e New York ha votato Zorhan Mandami, primo sindaco socialista della storia americana. La città ha reagito a modo suo. Musulmano, trentenne, con moglie artista e madre regista e film-maker, Zorhan ha fatto la campagna elettorale nei deli-market agli angoli delle strade e nei club house di Brooklyn (oltre che sui socials). Uno che parla Newyorkese insomma. Incredibilmente, come in un cartone animato Disneyano, tutto ha iniziato ha riprendere energia. La gente ha cominciato ad uscire, i bar e i ristoranti si sono riempiti. D’improvviso ti confermano gli appuntamenti e ti arrivano proposte di collaborazioni. Non fraintendetemi, non è merito del nuovo sindaco, che deve ancora dimostrare sul campo quanto valga, ma quello che sto provando a dire è che la città ha una sua personalità collettiva, una sorta di hive-mind e Zorhan l’ha capito.


Le megalopoli come New York alla fine sono sensibili e emotive, come lo stock-market. Un bravo businessman newyorkese prima di fissare un meeting guarda fuori dalla finestra per vedere che aria tira. Nel mondo dell’arte contemporanea funziona bene o male alla stessa maniera.

Cosi, approfittando di un po' di ottimismo, si sono organizzate cene e gli artisti hanno aperto le porte dei loro studi, come orsi che escono dal letargo.

Iván Argote «Dinosaur», 2024. A High Line Plinth commission; image courtesy @dragone_arte.


Ho visitato la casa della mia cara amica Marianne Vitale e di suo marito Rudolf Stingel. Marianne è una scultrice italo-americana che ha appena tenuto una mostra personale a Parigi presso The Journal Gallery (Blowing Robots, The Journal Gallery, 2025). Rudolph è un artista italiano di fama internazionale, originario dell’Alto Adige.


Sono due artisti molto diversi che si sono innamorati e hanno messo su famiglia insieme. Hanno appena terminato il restauro della loro residenza nell’Upper East Side - forse la casa privata più elegante che io abbia mai visto a New York. Dal momento in cui si entra nell’atrio rivestito in legno, si avverte nell’aria un profumo delle Dolomiti; viene voglia di togliersi gli scarponi.

Sopra il camino del soggiorno, contro pareti color vinaccia, è appesa una piccola natura morta scura e crepuscolare del secolo scorso, intorno, in deliberato contrasto con le pareti, si trova un bellissimo gruppo di dipinti di Stingel in delicate tonalità pastello. L’artista ha rielaborato i motivi decorativi del Carlyle Hotel, trasformandoli in dipinti di notevole raffinatezza ed eleganza. Pare che l’artista che li dipinse per l’hotel, Ludwig Bemelman, fosse anche lui di Merano, terra di origine di Rudolf.


Nella sala da pranzo, dominata da un tavolo monumentale intagliato in un unico tronco di albero secolare, piccole creature in bronzo di Marianne Vitale, che avevo già visto alla Biennale di Venezia, erano in agguato attorno al tavolo, come se fossero pronte a giocare con gli ospiti. Il menu era rigorosamente altoatesino, che da queste parti è una vera rarità.


Sono andato poi in Brooklyn a trovare Robert Storr. Forse il più autorevole curatore di pittura vivente. E’ stato Dean di Yale e curatore del Moma per tanti anni. Lo conobbi quando mi invitò con Alterazioni Video alla Biennale di Venezia e da allora siamo rimasti amici. L’anno scorso lo invitai come pittore (dipinge da anni ma sta facendo vedere i suoi quadri solo adesso) a una mostra collettiva. Era in ospedale a fare riabilitazione per un lieve incidente e pensavo mi annullasse l’appuntamento. Invece mi ha chiesto di portargli un cappuccino e delle paste. Ho ubbidito.


L’occasione per l’appuntamento era la pianificazione di una mostra in primavera che Robert ha accettato di co-curare e da subito abbiamo iniziato a lavorare mettendo a fuoco le linee guida. Mi ha ricordato un episodio divertente che passando gli anni mi fa riflettere. Qualche tempo fa lo avevamo invitato in Sicilia insieme a Marc Augé a girare un video sull’Incompiuto. Marc al tempo era molto anziano e l’assistente ci aveva detto che non poteva venire perché troppo debole. Quando lo abbiamo risentito ci disse che aveva licenziato l’assistente e che stava facendo le valigie per raggiungere Robert e noi a Palermo. «Mai fermarsi» aggiunse.


Sono andato a trovare anche Uri Aran in studio ma la studio visit non ve la racconto, la tengo per il 2026, con intervista all’artista, foto dello studio e tutto. Vi farò scoprire un poeta raffinato che dipinge quadri giganti che sembrano fatti da bambini. Bravissimo. Sta per avere una mostra importante in un museo italiano per cui ve lo presenterò al momento giusto così la potrete andare a vedere.


Mi ritrovo così fuori dallo studio, sotto la neve, a pochi blocchi da me triste e bagnato c’è il piccione gigante di Iván Argote intitolato Dinosaur. Decido di andarvelo a fotografare. Un piccione imponente alto sei metri e dipinto a mano minuziosamente dall’artista stessa, attivista colombiana, invitata dalla curatrice Cecilia Alemani, che ha voluto celebrare quasi fosse un eroe della città, quello che a New York è chiamato da tutti rat with wings - il topo con le ali.

L’artista l’ha piazzato in mezzo ai grattacieli del nuovo impressionante quartiere di Hudson Yard dove domina tra le lucine di Natale anche la sede centrale di Black Rock -la roccia nera-, il gruppo finanziario più grande al mondo che possiede un’intelligenza artificiale che ha già compiuto 30 anni dal nome inquietante di A.l.l.a.d.i.n.. Dinosaur si staglia imperioso, a un blocco di distanza quasi a sfidarla, come in King Kong contro Godzilla.

Dovrebbe volare via in primavera come i rondoni di Parma ma spero non lo tolgano mai. Mi piacerebbe diventasse un landmark di New York, come il dito di Maurizio Cattelan in Piazza Affari a Milano.

Finalmente torno in studio. Lavo i pennelli, spengo il computer e butto una montagna di stracci. E’ ora di staccare la presa. Il 2025 si chiude anche per me. Nelle ultime settimane ho lavorato a un grande quadro che a guardarlo mentre vi scrivo mi sembra rifletta bene il casino che ho in testa dopo un altro anno a New York.