Una vita in fuga
Sean dirige Dylan: Penn, affari di famiglia
Il transfert è notevole: girare un film su un complesso rapporto padre/figlia infilandosi nei panni stropicciatissimi del primo e chiamando per la parte della seconda Dylan, la figlia che ha avuto con Robin Wright. Forse per chiedere scusa delle assenze, forse anche delle intemperanze: e dichiarare, col proprio amore, anche la propria fragilità. Difficile non pensare che nel nuovo film di Sean Penn - basato da una storia vera e tratto dal romanzo autobiografico di Jennifer Vogel - non ci sia, seppure solo in via mediata, qualche conto personale da regolare. Oppure magari è che ci piacerebbe fosse così, più che altro per giustificare questa ballad struggente ma anche ridondante e derivativa, sentita ma non esente da retorica e stereotipi.
Autore di pellicole potenti («La promessa», «Into the wild»), ma anche di pasticci inclassificabili («Il tuo ultimo sguardo»), Penn (sorpreso dall'invasione russa mentre stava girando un documentario in Ucraina) eccede - nel raccontare la vicenda umana di un imbroglione cronico, padre inaffidabile di una ragazza che non smette di stargli accanto nonostante la seppellisca di delusioni - in sentimentalismi, dando forma di elegia, in un viaggio nel tempo che va dagli anni '70 ai '90, alla quintessenza del fallimento del sogno americano.
Girata in super 16, scandito dalle canzoni (bellissime) di Eddie Vedder, il film è meno brutto di quello che vorranno farvi credere, ma, onestamente, non è nemmeno riuscito. Pecca di enfasi, là dove dovrebbe grondare di sincerità.
fil.m.