cinema
Bellocchio riapre il «caso Mortara»: un film scomodo, potente e indignato
La storia di un bambino ebreo strappato dalla Chiesa alla sua famiglia
Nel nome del figlio: strappato dalla famiglia, dagli affetti, dalla sua vita, dalle sue radici, dalla sua religione. Preso, ingannato, «Rapito».
Come il film straziante e indignato in cui Marco Bellocchio - che a 83 anni dimostra una straordinaria vitalità artistica e intellettuale - mette in discussione l'indiscutibilità del dogma e la cecità del credo di chi pensa di dovere rispondere solo a Dio e invece - prima o dopo - deve dare conto anche alla Storia.
Girato a lungo anche in provincia di Parma, in particolare a Roccabianca (riconoscibilissima nella prima parte della pellicola), sia in esterni che in interni (nella casa di un uomo che il cinema lo ha amato davvero, il professor Roberto Campari), il nuovo film del regista piacentino - molto bene accolto al Festival di Cannes che si conclude stasera - rievoca il «caso Mortara», una storia che fece scalpore nell'Italia non ancora unita di metà '800, il cui eco oltrepassò i confini e addirittura l'oceano, arrivando a scuotere anche l'opinione pubblica in America: la storia di un bimbo di sei anni tolto nel 1858 alla sua famiglia ebrea perché (era stato battezzato di nascosto dalla domestica...) ritenuto «cristiano». Bastò quello per permettere, «legittimamente», ai solerti funzionari dello stato pontificio di prelevare con la forza il piccolo Edgardo e a portarlo a Roma da Pio IX, l'ultimo, temutissimo, Papa re. Che mai («non possumus») lo restituì alla sua famiglia.
Potente e scomodo, efficace allo stesso modo nelle, a tratti travolgenti, sequenze oniriche così come nelle scene da grande cinema (l'insurrezione di Bologna, ad esempio), «Rapito» (titolo immediato, ma forse meno efficace del precedente «La conversione»), oltre a ridare luce su una pratica inconcepibile eppure molto diffusa si interroga, senza intenti ideologici, non tanto sulla bontà della fede quanto sulla protervia di un potere (in questo caso ecclesiastico) che si nasconde dietro i simboli di una religione non più salvifica ma punitiva.
Un discorso, quello tra il laico Bellocchio e la religione ed educazione cattolica - di cui l'autore conosce bene la rigidità - sempre aperto, che torna spesso, come sappiamo, nel suo cinema: ma che in questo caso non ha intenti ideologici né politici, ma è parte della narrazione di una vicenda complessa che, per tanti versi, porta con sé interrogativi, riflessioni, ombre.
E della storia di questo bambino convertito a forza, che si nasconde sempre, sotto la gonna della madre o sotto la veste del Papa, Bellocchio - che sarà al cinema Astra alle 20 di mercoledì per salutare il pubblico - fa un film incalzante, severo, solenne, dove tutto è rito, atto, gesto, cinematografica liturgia. Una pellicola, forte di un cast puntuale, a tono e rodatissimo (dal bimbo Enea Sala, modenese, ai fedelissimi Fausto Russo Alesi, Fabrizio Gifuni, Barbara Ronchi, fino al sempre troppo sottovalutato Paolo Pierobon, protagonista anche di «Se un giorno tornerai» del parmigiano Marco Mazzieri), sull'indottrinamento (tema sempre attuale, per non dire universale) in cui il regista non trova se vogliamo la stessa energia e modernità del «Traditore» ed «Esterno notte», ma dove d'altra parte, con uso accorto del montaggio alternato, dimostra un talento visivo e narrativo sempre ispiratissimo.
Liberando, nella provocazione di un'immaginazione che non prende ordini da nessuno, anche un posto sulla croce: da dove Cristo scende, si toglie la corona di spine, ed esce dall'inquadratura.
Filiberto Molossi