Automotive, quattro idee per la ripartenza

Aldo Tagliaferro

Ovunque volgiamo lo sguardo, il panorama economico in piena pandemia non fornisce risposte rassicuranti. Viviamo con scontata rassegnazione la quasi paralisi del trasporto aereo, ascoltiamo impotenti il grido di disperazione del commercio, nemmeno pensiamo che perfino i comparti "anti-ciclici" rischiano di ritrovarsi in terra incognita. Prendiamo il vino: per quanto se ne beva a casa, lo stop alla ristorazione (il canale più remunerativo) ha bastonato anche le cantine. Figuriamoci come se la passa un settore strategico della manifattura come l'automotive: proviamo a individuare le basi da cui farlo ripartire.

Tanto per chiarire il quadro, i numeri: parliamo di una filiera da 100 miliardi di euro con 250mila occupati, il 7% del totale, e che pesa per l'11% della nostra manifattura. La quota di Pil - considerando tutto l'indotto - si avvicina al 10%. Aggiungiamoci che procura  circa 80 miliardi di gettito fiscale e capiamo perché dalle sue sorti può dipendere la ripresa dell'intero Paese e non solo delle 5700 aziende del settore (a dire il vero per lo più troppo piccole, perché il 75% del fatturato è generato da appena l'8% delle imprese).
Dunque, primo punto: gli incentivi. Le richieste del settore (da Anfia a Unrae) di prorogarli sono legittime alla luce dell'iniezione benefica che hanno dato al mercato nei mesi scorsi. E' bastato che si esaurissero quelli per i modelli che oggi il mercato può permettersi (ovvero a combustione interna seppur con emissioni e consumi drasticamente ridotti grazie alla tecnologia) perché novembre tornasse in rosso (-8,34%) con un'emorragia che nei nove mesi che sfiora il 29%. La proroga in manovra non è scontata, anche per le consuete divisioni nella maggioranza con M5S che vorrebbe limitarsi agli incentivi pr le auto elettriche.
Questo ci porta al secondo punto, le infrastrutture. Manca una regia nazionale per un piano di elettrificazione visto che ormai è  questa  la strada da imboccare nel futuro prossimo  (ma alla lunga non siamo così sicuri che andrà a finire così). Si moltiplicano gli annunci, i progetti dei privati, gli accordi con le amministrazioni comunali ma quando si va a vedere quante stazioni di ricarica ci sono sul territorio rispetto a quelle annunciate c'è da mettersi le mani nei capelli. Senza contare che  non dialogano fra di loro (come se uno potesse fare benzina di una marca e non di un'altra...), oppure non sono "veloci", quando per velocità parliamo comunque di almeno 40 minuti per concederci una dose adeguata di chilometri.
Terza questione, l'ambiente. Il rinnovamento del parco auto ha un vantaggio ecologico non indifferente: gli incentivi di questi mesi non hanno solo aumentato le vendite, ma hanno anche comportato 120mila rottamazioni di  vetture delle categorie fino a Euro 4, risparmiando alle nostre città - stima Invitalia - oltre 155 mila tonnellate di CO2 su base annua. L'ambiente è una delle tre chiavi del nuovo mantra, l'Esg, ovvero il ripensamento ex novo dell'impresa secondo criteri ambientali (environment), etici (social) e di conduzione (governance). Pochi giorni fa un intervento di Carlo Bellavite Pellegrini  su MF ricordava che nel settore dell'automotive quando il rating ambientale aumenta del 10% si registra un incremento del Roa (return on asset) del 4%, un valore nettamente più alto rispetto agli altri due pilastri. Le aziende lo hanno capito e iniziato una transizione che va oltre la costruzione di veicoli elettrici ma che corre il rischio di venire azzoppata dalla crisi scatenata dalla pandemia perché richiede (anche) ingenti capitali.
L'ultimo spunto si chiama Brexit. L'industria automobilistica britannica (quasi totalmente in mani estere) non può permettersi di sommare alla batosta del Covid anche un "no deal" sulla Brexit: costerebbe miliardi ai costruttori  sia in termini di incidenza dei dazi doganali che di crollo della produzione. L’associazione britannica dell’industria automobilistica (SMMT) stima perdite - tra il 2021 e il 2025 - per  55 miliardi di sterline. In  caso di fuga dei costruttori stranieri dal Regno Unito non essere in prima fila per offrire condizioni vantaggiose sarebbe imperdonabile, soprattutto pensando che Fca è vicina alla fusione con Psa che detiene il brand britannico Vauxhall... Ma il Palazzo ci avrà pensato?