Transizione ecologica: i rischi per l'automotive (e l'industria europea)

Sotto il cielo dell’automotive regna grande fermento, ma anche parecchia confusione. Nella forsennata corsa alla transizione ecologica, la filiera è in ebollizione tra ricerca,  tecnologia e annunci roboanti, forse al punto di non accorgersi quanto al momento siano lontani dall’avere un piano coerente gli obbiettivi europei (i più ambiziosi al mondo) per realizzare cambiamenti epocali e quanti rischi corra - insieme a una delle filiere decisive dell’industria - l’intera economia europea.

Non c’è che l’imbarazzo della scelta, scorrendo le ultime news: Bmw che presenta l’auto riciclabile al 100%, Mercedes che conferma con il Ceo Ola Källenius che il dado è tratto e il futuro della Stella sarà solo elettrico, Hyundai (anche l’Asia è sul pezzo) che dal 2035 non venderà più modelli termici ed entro il 2040 avrà l’idrogeno su ogni auto. E ancora: lo smartphone che parcheggia, l’auto  solare, i saloni ibridi, Volkswagen che vende i modelli elettrici in abbonamento. Insomma, un grande calderone, con tanti ingredienti interessanti ma poche certezze sui tempi di cottura e sul risultato finale.

Il dramma è la totale mancata di percezione del fenomeno da parte del mercato. Intanto sul fronte degli utenti: l’ultimo studio di Quintegia  dice che solo 2 automobilisti su 10 ritengono che le auto elettriche porteranno grandi vantaggi per l’ambiente, nonostante - ricorda l’Aci - in Italia circolino ancora 12 milioni di auto altamente inquinanti;  poi su quello delle infrastrutture: i costruttori europei lanciano l’allarme colonnine, con 10 Paesi che hanno meno di un punto di ricarica ogni 100 km (noi siamo settimi con 5,1). E infine su quello politico: se Draghi ha ricordato a tutti che gli accordi di Parigi sono ancora nel cassetto, la realtà ci racconta che lunedì scorso in Norvegia il centrosinistra - che era all’opposizione - ha vinto le elezioni, ma non cambierà la politica sull’estrazione di petrolio, che vale il 16% del Pil del paese con buona pace di tutte le auto elettriche che scorrazzano per Oslo grazie a generosissimi incentivi statali (per inciso: in Norvegia le elettriche valgono il 54% delle vendite, ma il mercato è meno di metà di quello della sola Lombardia…). 

Non basta. La metamorfosi dell’automotive non segna solo il passaggio verso la propulsione elettrica, ma riguarda anche la digitalizzazione, dai servizi a bordo fino alla guida autonoma.  

Ecco allora che la carenza di semiconduttori - messa definitivamente a nudo dal lockdown con la maggiore richiesta di chip per le attività a distanza - ha messo in ginocchio la filiera perché oggi servono più chip che pistoni (fino a 3mila per modello) e il collo di bottiglia ha finito per fermare le catene di montaggio. Questo per dire che il cambio di paradigma produttivo rischia di mettere fuorigioco un settore che solo in Italia supera il 10% del Pil e a breve dovrà preoccuparsi sia dei costi di transizione sempre più alti nel processo di decarbonizzazione sia dell’approvvigionamento di terre rare, materiali in assenza dei quali non si riuscirebbe a produrre batterie al litio o pannelli solari. Tre, allora, sono i temi caldissimi su cui rischia di innestarsi una crisi dalle conseguenze incalcolabili.

1. Se la transizione sposata - non senza ragione però fideisticamente - dal legislatore europeo verso la mobilità elettrica non verrà ben gestita il timore è che la filiera dell’automotive collassi portandosi dietro centinaia di migliaia di posti di lavoro (i “costi sociali” di cui ha parlato anche Draghi). Investimenti enormi a fronte di un mercato che non risponde e di infrastrutture ancora carenti: quanto può durare? Il mercato europeo sta perdendo il 25% rispetto al 2019 - il vero metro di paragone dopo il disgraziato 2020 - e la stragrande maggioranza dei modelli in commercio rischia di essere già obsoleta bloccando di fatto il mercato.

2. Un altro problema assillante è il rischio che per vedere circolare milioni di veicoli elettrici non basti l’energia disponibile, e soprattutto che non sia sufficiente quella prodotta da fonti rinnovabili, oggi non oltre il 30% del totale. Produrre energia o batterie sfruttando gas o peggio carbone sposterebbe solo il problema a monte. Non per niente sta riemergendo nel dibattito politico, anche alla luce dei recenti rincari della bolletta energetica, il tema del nucleare. Credevamo di averlo messo in soffitta con un referendum, ma il futuro potrebbe essere molto diverso...

3. L’ultima questione, l’ennesima in cui l’Europa rischia di diventare sempre più marginale: le famose terre rare cui accennavamo sopra sono in mano per lo più alla Cina (fornisce l’80% delle quote Usa e il 98% di quelle europee). Pechino ora potrebbe  mettere le mani anche sui milioni di tonnellate nascosti sotto il suolo dell’Afghanistan. Le miniere e le fonderie necessarie per lavorare le terre rare sono altamente inquinanti, per questo va bene a tutti che ci pensi la Cina. Ma il mondo è uno solo e la rivoluzione verde a livello globale potrebbe essere solo un’utopia. Se poi continueranno a esistere mercati dove la transizione ecologica è lenta o inesistente (Africa, Sud America, parte dell’Asia) oltre al danno ambientale  dei “vecchi” motori ancora circolanti altrove, potremmo subire la beffa di essere tagliati fuori da catene produttive politicamente scorrette ma efficienti e remunerative.