Auto, il futuro è elettrico? Ecco perché la rivoluzione dall'alto fa paura
Quante volte avete sentito dire che il mondo sta per vivere la rivoluzione epocale della mobilità elettrica, o addirittura - step successivo e intimamente connesso - della guida autonoma? E’ uno dei grandi temi del momento perché coinvolge molteplici ambiti: industriale (e quindi occupazionale), tecnologico, ambientale, politico. Il grande assente di questa delicatissima transizione verso il futuro sembra però essere proprio la politica, alla quale si chiede una cabina di regia credibile per gestire un processo troppo complesso per essere lasciato nelle sole mani dell’industria. Ma paradossalmente è proprio la politica che - sulla sacrosanta spinta della lotta al cambiamento climatico - ha preso decisioni più sull’onda emotiva che sulla base delle evidenze scientifiche imponendo uno stravolgimento dall’alto. La premessa fa paura perché è estremamente rischioso andare contro la domanda naturale del mercato.
Se l’emergenza planetaria è quella delle emissioni di Co2 perché il nemico è diventato il diesel, il cui problema semmai sarebbero gli ossidi di azoto (questione peraltro risolta con i motori di ultima generazione)?
Comunque, cosa dobbiamo attenderci ora? Nel nostro Paese la filiera dell’automotive è gigantesca, vale 330 miliardi di euro e conta 1,2 milioni di addetti (un decimo di quelli continentali). La catena va ben oltre i costruttori: powertrain, componentistica, batterie, navigatori, software, pneumatici, oli, carburanti, concessionari, società di noleggio, officine, finanziamenti all’acquisto, assicurazioni… In diversi casi - componentistica in primis - la catena del valore è così lunga da prevedere forti correlazioni internazionali.
Il problema è che il radicalismo del concetto di «zero emissioni» non solo sta spazzando via gli investimenti miliardari fatti per rendere puliti i motori endotermici (con risultati eccellenti) ma si scontra drammaticamente con un mercato incapace - e lo sarà per molto tempo ancora - di recepire la novità sia per evidenti limiti tecnologici (tempi di ricarica e autonomia) che per la carenza di infrastrutture (colonnine, ricarica a induzione, wallbox). Aggiungiamoci poi i costi, oggi elevati sia per l’acquirente sia per l’industria perché la riconversione degli stabilimenti è in perdita, almeno finché la transizione non sarà a regime. Solo pochi grandi gruppi finanziariamente molto solidi possono permetterselo. Ma anche i costi sociali sono elevati: un’auto elettrica prevede circa un settimo dei componenti di quella tradizionale e richiede materie prime finite nelle mani di pochi, tendenzialmente cinesi. Se domani Pechino aumentasse del 30% i prezzi delle batterie cosa accadrebbe? A Bruxelles qualcuno se lo è chiesto?
Guardiamo l’immediato: nel 2020 entreranno in vigore nell’Ue i nuovi limiti relativi alle emissioni, 95 grammi di Co2 per km come media per ogni Gruppo (sarà escluso il 5% più inquinante, ma solo nel primo anno). Significa che chi sfora deve pagare 95 euro per ogni grammo oltre il limite moltiplicato per il numero di auto vendute. Il conto può essere salatissimo, miliardi di euro. Con due conseguenze: assisteremo subito a un’impennata di immatricolazioni per togliere dal mercato le vetture a maggior impatto ambientale (da convertirle nel canale delle «chilometri zero») poiché l’operazione costa alle Case meno delle multe, e poi prolifereranno i modelli se non elettrici quanto meno ibridi plug-in, ovvero ricaricabili, che consentono di percorrere qualche decina di chilometri a zero emissioni: è l’unico modo che hanno le Case per provare a rientrare nei limiti. Per l’ambiente si tratta di una foglia di fico: questi modelli godono di dati di omologazione delle emissioni bassissimi perché prendono in considerazione l’utilizzo teorico a batterie piene. E’ evidente che la realtà sarà diversa. Del resto qualche anno fa in presenza di incentivi per il Gpl ci fu il boom dei modelli a gas ma non un aumento dei consumi: dopo aver sfruttato lo sconto iniziale si riempiva il serbatoio di benzina...
A complicare ulteriormente il quadro - visto che dalla scorsa settimana sono in vigore i divieti di circolazione per le auto inquinanti in molte città (Parma inclusa) - ci sono incentivi e regolamenti in materia che variano da regione a regione se non da città a città. E con questo torniamo al punto iniziale: manca una coscienza politica per affrontare il tema e dare risposte a chi come FCA ha appena messo sul piatto 1,6 miliardi per gli stabilimenti italiani. Confindustria ha lanciato la proposta di un tavolo di settore e il ministro Stefano Patuanelli pare più sensibile del suo predecessore al Mise. Bisogna però fare in fretta e tirare le fila degli incentivi (gli unici risultati ottenuti dall’ecobonus gialloverde sono stati la depressione del mercato e l’aumento di emissioni di Co2 nel passaggio dai diesel ai benzina), favorire la rottamazione dei vecchi modelli, verso cui peraltro tende il decreto Clima, e velocizzare la transizione industriale tenendo però presente che la soluzione nel medio termine non potrà essere solo elettrica. Per fare tutto questo non basta un tavolo, serve una cabina di regia che abbia un respiro finalmente europeo.