Intervista

Carlo Alberto Bertozzi: «I dazi Usa? Un danno»

Aldo Tagliaferro

Le nuove sfide dell'agroalimentare fra tariffe e cambio sfavorevole con il dollaro

Nonostante il presidente degli Stati Uniti ostenti sicurezza e snoccioli dati a suo dire confortanti, l’effetto dei dazi sull’economia americana fatica a vedersi. L’inflazione rimane alta mentre la Cina sembra aver digerito bene il brusco scalo degli interscambi con gli Usa (export +5,4% e surplus schizzato a oltre mille miliardi di dollari). Ma la situazione per le aziende italiane che esportano oltre oceano qual è? E in particolare: l’agroalimentare, ossatura della nostra economia, come se la passa? Ne parliamo con Carlo Alberto Bertozzi, che gli Stati Uniti li conosce bene. Parmigiano, pioniere dell’avventura americana della Barilla (che poi scelse di produrre direttamente negli Usa), da decenni si occupa di accompagnare le aziende sul mercato a stelle e strisce.

I dazi per i prodotti che provengono dall’Ue sono attualmente fissati al 15%. Che impatto hanno avuto?
A essere sinceri c’è da avere paura perché sono cambiati i tempi. Una volta le aziende italiane potevano “fare il colpo” in America presentandosi a una fiera, ad esempio il Fancy Food, e facendo un accordo con un distributore o un agente per gli Usa. Oggi non è più possibile: intanto si sommano due difficoltà, da un lato i dazi al 15% e dall’altro il cambio sfavorevole con il dollaro che si è apprezzato fra il 15 e il 20%. Complessivamente un impatto enorme, fra il 30 e il 35%, che mette un prodotto fuori mercato. Molte aziende italiane non se ne sono ancora rese conto pienamente.

E cosa bisogna fare allora?
Le imprese che stanno realizzando cosa accade costituiscono una filiale negli Stati Uniti. Questa è la via giusta perché la via degli importatori indipendenti funziona finché le cose vanno bene ma non sono “costruttori” di marchi. L’unica strada percorribile è costituire una filiale di proprietà e affidarsi a chi conosce il mercato per amministrarla e svolgere tutte le funzioni di una piccola società. Un po’ il percorso che molti anni fa avevamo creato con Barilla, quando si affacciò per la prima volta sul mercato americano. Poi sono arrivati tanti altri brand italiani con cui lavoriamo, Gran Terre, Rizzoli Emanuelli,Rigoni di Asiago, Ponti, Bertozzi, Bauli, KImbo. In passato Mutti, Rodolfi, Parmacotto e tanti altri. Non solo: dopo aver lavorato inizialmente con aziende italiane in diversi settori, dai prodotti sportivi all’arredamento, ci siamo accorti che era fondamentale specializzarsi per essere competitivi. E abbiamo scelto l’agroalimentare. Oggi abbiamo diversi Key Account italiani preparati molto bene dalla Smea.

C’è chi come Barilla ha scelto di produrre negli Stati Uniti...
Certo. Ma questo può farlo solamente un gruppo di grandi dimensioni, come Barilla oppure Giovanni Rana che ha acquisito un’azienda in California che già faceva ravioli. Ma produrre in Usa non è una via praticabile per tutti i prodotti, ad esempio non certo per il pomodoro.
Quanto è apprezzato il made in Italy alimentare oggi negli Usa? E quanto sono importanti i nostri ristoranti?
La base di consumatori dell’agroalimentare italiano è molto aumentata, il nostro è un Paese adorato dagli americani. Mai come ora. Il prodotto è apprezzato moltissimo soprattutto alimentare. Ci sono zone più adeguate per il prodotto italiano, come la East Coast o la California, altre zone vanno meno bene. L’Illinois è un grande mercato per il Made in Italy. La cosa importante è essere presenti nella distribuzione. Quanto ai ristoranti in certe zone, come la East Coast, sono molto importanti. Operiamo a volte con distributori food service che spesso lavorano unicamente con ristoranti.
Ma come si ovvia all’imposizione dei dazi?
Per diminuire l’impatto l’esportatore italiano oggi deve contribuire in qualche maniera, riducendo i margini. Il consiglio è quello di esportare in dollari, non in euro. Ci sono grandi opportunità di crescita ma c’è anche il rischio enorme di perdere il momento magico per i prodotti italiani.

Le scelte economiche di Trump sono apprezzate negli Usa?
Io credo molto nel mercato e credo che alla fine si ribellerà, perché l’America è un paese libero. Diversi soggetti pubblici, ma anche privati, non sono per niente d’accordo sulla politica tariffaria. Io scelsi gli Stati Uniti proprio perché il mercato era libero mentre in Europa il percorso era più complicato. A nessuno sarebbe mai venuto in mente, men che meno a un repubblicano legato ai valori del mercato libero, imporre dei dazi. Ripeto: è insensato.

Trump è arrivato a ipotizzare un dazio del 107% sulla pasta…
Una follia, ovviamente. Nasceva dal fatto che il Department of Commerce monitora la correttezza dei prezzi e a un certo punto è emerso che il prezzo di alcuni produttori era troppo basso. Ma per fortuna il discorso si è fermato lì.
Ma l’agroalimentare italiano può sostituire un mercato ricco e moderno come quello degli Stati Uniti?
Serve un lavoro molto lungo. E sicuramente la Cina, l’altro grande player mondiale, non può essere la risposta per i nostri prodotti. Magari per altri settori sì ma non per l’agroalimentare. Gli Stati Uniti restano un grande mercato ma le aziende italiane devono capire che oggi non bastano più le fiere, devono impegnarsi con un piano e un programma.

Occorre una dimensione minima per un’azienda che vuole affacciarsi sul mercato americano?
No. Noi lavoriamo con aziende che esportano 30 mln ma anche con altre che fatturano 300 o 500mila dollari. La distribuzione americana lo permette: ad esempio sul riso, che ha consumi bassi negli States, è possibile lavorare anche con dimensioni ridotte.

Il problema dell’italian sounding però rimane.
Sì, ma ci sono catene nostre clienti, come Trader Joe’s o Costco, che si fanno un vanto di vendere prodotti autentici. Certo, resiste anche il fake americano, ad esempio sull’olio anni fa si vedevano cose imbarazzanti, ma ora va molto meglio. Il discorso sulla distribuzione in Usa è complesso, la difficoltà maggiore è capire chi fa cosa. Occorre individuare le persone giuste. Anche Amazon è diventato un veicolo importante di prodotti italiani autentici, la stessa Walmart richiede gli originali e Whole Foods funziona molto meglio sugli autentici. Il caffè, per esempio: cresce la richiesta di vero espresso italiano.

Il momento è complesso, ma per il futuro cosa vede?
Resto ottimista sugli Stati Uniti, perché resta il migliore mercato del mondo. Sono convinto che le cose cambieranno in meglio in un prossimo futuro ma nel frattempo bisogna resistere: la chiave è l’organizzazione e la pianificazione da parte delle aziende.


CHI E'
Carlo Alberto Bertozzi, imprenditore parmigiano, ha il mondo del food nel Dna: il nonno Abele aveva fondato nel 1901 la ditta di formaggi Adele Bertozzi, il padre Amilcare e lo zio Carlo fondarono poi la Althea nel 1932. Da molti anni vive negli Stati Uniti dove è presidente di Mra Group. Dopo diverse esperienze nel commerciale e nel marketing (tra le quali General Electric) decide di occuparsi di food negli Stati Uniti; è stato il primo ad accompagnare la Barilla in America.